Eravamo LGI: Patrick Enrici

Inserito in 4 edizioni di fila dell’almanacco durante i suoi anni a Torino, è ora un perno del Lecco che sta stupendo tutti in Serie C
21.01.2023 12:00 di Luca Pellegrini   vedi letture
© Instagram/patrickenrici
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Nella sua carriera non ha mai avuto bisogno di lunghi periodi di ambientamento. Quando a 16 anni è passato dalla Pro Vercelli al Torino, è diventato subito una delle colonne portanti dell’Under 17 granata. Quando è andato in prestito alla Sambenedettese, per vivere la sua prima avventura nel calcio professionistico, ha raccolto 26 presenze in Serie C. Quando si è trasferito al Lecco, poco più che ventenne, gli sono bastate poche settimane di ritiro per convincere tutti delle sue potenzialità e della sua maturità. E infatti ha giocato 33 partite, segnando anche un gol (il suo primo tra i grandi). Quest’anno, con i blucelesti che giornata dopo giornata si stanno rendendo protagonisti di un campionato eccezionale, Patrick Enrici ha dovuto alzare ulteriormente l’asticella delle proprie prestazioni e non ha deluso le aspettative. Il Lecco se lo coccola, lui non si monta la testa e rimane il ragazzo di sempre: umile, determinato, con una straordinaria voglia di lavorare e migliorarsi. Le stesse caratteristiche che ci avevano colpito quando avevamo deciso di inserirlo nell’almanacco. 

Ciao Patrick. Prima di tutto complimenti per le recenti prestazioni e per i risultati che state ottenendo. Al momento siete quarti in classifica a soli 2 punti dalla vetta. Ve l’aspettavate?

“Ti dico la verità: quando ci siamo ritrovati in estate, il club ha fissato come obiettivo quello di raggiungere una salvezza tranquilla. Non per falsa umiltà o perché non si volesse puntare troppo in alto, ma semplicemente perché rispetto all’anno scorso la rosa è cambiata molto. Tanti giocatori – tra cui alcuni elementi di esperienza, che davano un apporto fondamentale – se ne sono andati e durante tutto il ritiro c’è stato un continuo vai e vieni. Appena è finito il mercato, con la rosa ormai definitiva, abbiamo iniziato a creare gruppo e nel giro di poco tempo lo spogliatoio si è compattato. I risultati non sono stati subito positivi, tant’è che nelle prime quattro giornate di campionato abbiamo ottenuto due sconfitte e un pareggio, ma dopo il cambio di allenatore [Alessio Tacchinardi è stato sostituito da Luciano Foschi, n.d.r.] abbiamo svoltato”.

Diverse squadre che si trovano insieme a voi nelle zone nobili della classifica hanno alternato strisce positive di numerose partite a periodi (anche abbastanza lunghi) di passi falsi; voi, invece, avete mantenuto una certa costanza. È questo il segreto del vostro piazzamento?

“Io credo che la nostra attuale posizione sia da un lato il frutto dell’impegno e dell’intensità che mettiamo in ogni singolo allenamento e dall’altro la conseguenza del modo in cui i nostri due allenatori (Foschi e il suo vice Malgrati) sanno mantenere unito il gruppo e analizzare insieme a noi gli errori che commettiamo in partita. È questo il motivo per cui fino ad ora siamo riusciti a non incappare in un filotto negativo; è capitato che facessimo grandi prestazioni contro squadre molto forti e che poi perdessimo punti contro squadre che sulla carta sono inferiori a noi, ma ci siamo sempre risollevati in fretta. Avere qualcuno che ci fa capire dove sbagliamo, cercando insieme a noi soluzioni per migliorare, ci ha permesso di rimetterci in carreggiata dopo ogni sbandamento”. 

Facciamo ora un salto indietro nel tempo e andiamo dove tutto è cominciato: al Pedona Borgo San Dalmazzo, la tua prima squadra. Cosa ricordi di quegli anni?

“Ho iniziato a giocare a 4 anni e il merito è stato della mia maestra. È stata lei a suggerire ai miei genitori di iscrivermi alla squadra del paese perché aveva notato subito che in ogni momento libero io mi mettevo a rincorrere e calciare un pallone. Mia madre mi portò dunque al Pedona, dove mi accettarono in squadra nonostante io non avessi l’età minima (perché la squadra dei più piccoli era composta dai bambini di 5-6 anni). Rimasi con loro per 6 stagioni e mi divertii tantissimo”.

Nel 2011 compi il primo salto: dal piccolo Pedona passi al Cuneo, dove giochi per 5 anni e ti metti in mostra. Che avventura è stata?

“Beh, fondamentale per la mia crescita. I miei primi allenatori sono stati Valter e Paolo Quirico, (padre e figlio), cui devo davvero tantissimo. Sono stati loro che hanno deciso di spostarmi in difesa, dando una svolta alla mia carriera. Il nuovo ruolo, infatti, non solo si addiceva di più alle mie caratteristiche, ma fin da subito me lo sono sentito calzare a pennello; in breve tempo mi sono reso conto che – a differenza della maggior parte dei miei coetanei – mi piaceva molto di più difendere la porta che attaccarla. Un’altra persona che è stata fondamentale nel mio percorso al Cuneo è stata Mauro Giordana, l’ultimo mister che ho avuto in quella società. Mi ha insegnato tanto e mi ha consentito di spiccare il salto decisivo: quello alla Pro Vercelli”.

Salto che si verifica – con la formula del prestito – nel 2016 e che si rivela decisivo per la tua carriera, dato che sarà proprio la stagione in bianconero a convincere la dirigenza granata a puntare su di te. Che anno hai vissuto a Vercelli?

“È stata una stagione importante sotto ogni punto di vista, sia personale che calcistico. Vista la distanza da Cuneo, mi sono dovuto trasferire. Lasciare casa, famiglia e amici, cambiare scuola e città… Non è stato facile, ma mi ha fatto crescere tantissimo a livello caratteriale. Per quanto riguarda invece il calcio giocato, è stato un anno fantastico. Ho partecipato al campionato Under 16 con i miei pari età, ho giocato 8 partite con i più grandi in Under 17 (nella squadra guidata da Sergio Zanetti, il fratello dell’ex capitano dell’Inter) e ho addirittura avuto l’occasione di allenarmi per una settimana con la Primavera. Tra l’altro, proprio nei giorni in cui sono stato aggregato all’Under 19, abbiamo disputato un’amichevole contro la prima squadra di Moreno Longo, il mister che ho ritrovato poi a Torino e che mi ha convocato per due gare di Serie A”.

Nel 2017 ti trasferisci ai granata: fai subito il titolare e diventi una delle colonne portanti dell’Under 17. Sembra davvero che tu non abbia sentito il salto…

“Credo che il merito sia stato soprattutto del carattere che mi sono costruito nell’anno di Vercelli, il mio primo lontano da casa. Poi ovviamente hanno giocato un ruolo fondamentale anche i valori che mi ha trasmesso mia madre – umiltà, rispetto, sacrificio – e di una cultura del lavoro che io stesso fatico a spiegarmi [ride]. A me piace allenarmi, faticare in campo giorno dopo giorno, limare i dettagli. E poi sono un ragazzo che parla poco: preferisco dimostrare in campo. Questo è sempre stato il mio atteggiamento. Mi ricordo che il mister dell’Under 17, Marco Sesia, spesso mi prendeva ad esempio per la determinazione e l’impegno che mettevo in mostra tutte le settimane. Sapevo che aveva grande fiducia in me e ciò mi consentiva di dare il meglio di me in campo. Quell’anno giocai quasi tutte le partite della stagione, amichevoli comprese. Fu fantastico”. 

La tua prima stagione al Torino coincide con la tua prima presenza sull’almanacco. Come hai reagito quando ti hanno detto che saresti stato inserito nel libro de La Giovane Italia?

“È stata un’emozione incredibile sia per me che per mia mamma. Lei quando l’ha saputo si è commossa e io mi sono sentito super orgoglioso per averle dato quella gioia. Nella sua vita ha fatto tantissimi sacrifici e vederla felice per me non ha prezzo. Poi ovviamente è stata una grandissima soddisfazione anche dal punto di vista calcistico e mi ha caricato ancora di più”.

La stagione successiva sei stato inserito nuovamente sull’almanacco. Era il tuo primo anno in Primavera e Federico Coppitelli, l’allenatore della squadra, disse di te: «Difensore di altri tempi: è uno dei pochi marcatori in circolazione. Ragazzo serio ed efficace, dotato di una straordinaria cultura del lavoro; una sorta di marines». Come commenti le sue parole?

“[Ride] Eh, ha detto quello che cercavo di spiegarti prima. La mia caratteristica principale è sempre stata la grande voglia di lavorare; è un’attitudine che ho sempre avuto e che mi ha consentito di togliermi tutte le soddisfazioni che mi sono tolto fino ad ora. Sapere che i tuoi sforzi vengono ripagati perché c’è qualcuno che nota e apprezza il tuo impegno non può che farti piacere. Ecco perché le parole che mi hai appena letto sono il complimento migliore che io possa ricevere; perché sono il riconoscimento del mio lavoro”.

Nonostante l’attestato di stima, il 2018/19 non è stato tutto rose e fiori, vero?

“È stato un anno strano, che tuttora faccio fatica a spiegarmi. Feci il ritiro con la Primavera e andò tutto bene. Ovviamente, essendo sotto età, non cominciai il campionato come uno dei titolari; debuttai dal primo minuto alla 4ª giornata contro il Milan e da quel momento non uscii più dal campo fino alla sosta natalizia. Poi successe un episodio particolare. Un procuratore venne a trovarmi a Borgo San Dalmazzo, dove stavo passando le vacanze con la famiglia; mi disse che mi stava seguendo da tanto tempo e mi prospettò quello che poteva essere il mio futuro. Secondo lui, il percorso naturale sarebbe stato: finire la stagione in Primavera, andare in prestito in Serie B a farmi le ossa e tornare poi a Torino per essere inserito in prima squadra. Io lo ringraziai per le belle parole e per la fiducia che riponeva in me, ma gli risposi che preferivo non avere un procuratore. Dal mio punto di vista (e anche da quello di mia madre) non ce n’era bisogno. Guardando a mia madre come esempio, avevo capito che nella vita bisogna cercare di essere il più possibile indipendenti: si fa quello che si può con le proprie risorse e con le proprie doti, spingendosi fin dove è possibile; se ad un certo punto, dopo essersi impegnati al massimo e aver messo in campo tutto quello che si ha, non si riesce ad andare avanti, significa che si è arrivati al proprio limite. Non servono aiutini. Il lavoro quotidiano e il talento ti fanno arrivare dove meriti. Questo procuratore ha visto il mio rifiuto come una sorta di affronto: secondo lui avevo declinato l’offerta perché credevo di essere troppo bravo e di non avere bisogno di uno come lui. Non so se questa persona avesse dei legami con la società del Torino e, in tal caso, non so di che tipo fossero. Sta di fatto che nella seconda metà di stagione giocai titolare 3 partite, collezionai una decina di panchine e diverse volte andai in tribuna. Io non chiesi mai spiegazioni perché, come ti dicevo, ho sempre pensato che fosse il campo a dover parlare. I giocatori devono dare il massimo (cosa che ho sempre fatto) e gli allenatori fanno le proprie scelte. Però ci rimasi malissimo”. 

Anche la stagione successiva è un po’ particolare: da un lato arrivano le soddisfazioni del ritiro con la prima squadra e di due convocazioni in Serie A, dall’altro in Primavera giochi a singhiozzo. Come hai vissuto quel secondo anno di alti e bassi?

“È iniziata ed è finita in modo incredibile, ma in mezzo l’ho vissuta male. In estate sono stato chiamato per fare il ritiro con la prima squadra ed ero emozionatissimo. Le cose andarono bene: mister Mazzarri rilasciò addirittura alcune dichiarazioni in cui parlava bene di me e io riuscii a creare un bel legame con diversi calciatori; De Silvestri, in particolare, mi prese sotto la sua ala e mi aiutò molto. Rientrati a Torino, io non vedevo l’ora di iniziare il campionato con la Primavera. So che può sembrare strano, perché magari un giovane che fa tutto il ritiro con i grandi poi si aspetta di rimanere con loro in pianta stabile, ma io non ci pensavo. Il mio obiettivo era fare bene in Under 19 (anche perché quell’anno non ero più sotto età, quindi lo vedevo proprio come il mio campionato). Ovviamente se fossero arrivate altre chiamate dalla prima squadra mi sarei fatto trovare pronto, ma in quel momento non ci pensavo: ero concentrato solo sulla Primavera, che tra l’altro aveva nominato come nuovo mister Sesia, l’allenatore con cui avevo cominciato la mia avventura a Torino in Under 17. La stagione tuttavia si rivelò un incubo. Negli allenamenti il clima era tesissimo e io venivo attaccato ad ogni errore; era come se la fiducia che aveva sempre riposto nei miei confronti fosse sparita all’improvviso. In campionato disputai 8 partite, di cui solo 4 da titolare. Cioè, per farti capire: l’anno prima, nel quale giocai con i più grandi e – come ti spiegavo – da gennaio in poi scesi in campo a singhiozzo, collezionai il doppio delle presenze rispetto al 2019/20, nel quale la rosa era composta dai miei pari età. Il paradosso era che nel frattempo mi chiamavano per fare gli allenamenti con la prima squadra, cui avevo fatto un’ottima impressione in estate. Per cui immagina la situazione: dal lunedì al giovedì ero con i grandi, il venerdì facevo la rifinitura in Primavera e poi il weekend stavo in panchina”.

Come anticipavo, però, la stagione finì con una (doppia) grande soddisfazione: la convocazione in prima squadra per le ultime due giornate di Serie A. Mi racconti la prima volta?

“Me lo ricordo come se fosse ieri. Feci la rifinitura con i grandi (come avevo già fatto altre volte) e diedi il massimo, senza pensare minimamente alla convocazione. Non è che non ci sperassi o che non ambissi a riceverla, ma non mi sono mai allenato col pensiero: «Spingi che così ti chiamano». Come ti spiegavo all’inizio, fin da ragazzino ho sempre avuto grande voglia di lavorare; per me non esisteva il fatto di dare meno del 100%. In prima squadra era uguale: davo tutto perché sono sempre stato abituato a fare così, non perché sperassi in una chiamata. E poi facevo un altro ragionamento: «se vado forte, aiuto la prima squadra, perché contribuisco nel mio piccolo a rendere le sedute di allenamento utili per i grandi». Il giorno prima di Torino-Roma mi comportai nello stesso modo di sempre, ma uscendo dagli spogliatoi mi accorsi che il mio nome era comparso sulla lista dei convocati. Non capii più niente. Per non parlare dell’ingresso allo stadio la domenica: mi tremavano le gambe e avevo gli occhi lucidi. Un’emozione indimenticabile”.

Nel 2020/21 vai in prestito alla Sambenedettese e vivi la tua prima esperienza nel calcio professionistico. Ancora una volta, come nel passaggio dal Cuneo alla Pro Vercelli e dalla Pro Vercelli al Torino, ti sei calato immediatamente nella nuova realtà. Non hai sentito il salto? 

“No perché è andato tutto liscio fin dal ritiro. La preparazione andò benissimo e quando cominciò il campionato io facevo già parte dei titolari. Il mister era Paolo Montero e decise di usarmi come terzino sinistro. Poi la società lo esonerò e al suo posto chiamò Mauro Zironelli, che arrivava dall’Under 23 della Juventus. Lui mi diede grande fiducia, mi fece giocare tanto e mi consentì di crescere tantissimo dal punto di vista tecnico-tattico, perché voleva dalle sue squadre un gioco propositivo che partisse dalla difesa, per cui tutti erano coinvolti in entrambe le fasi. E poi mi cambiò il ruolo, schierandomi centrale in una difesa a 3. A fine stagione c’erano diverse voci su un possibile interessamento da parte di alcuni club di Serie B, ma un po’ per scelta mia e un po’ perché di concreto alla fine non c’era molto, decisi di rimanere un altro anno in C. Stavolta però non come un ragazzo del settore giovanile che deve farsi le ossa, ma con l’obiettivo di essere protagonista, dato che ero reduce da una stagione con 26 presenze”.

La stagione in Serie C è stata la tua prima con i grandi e la tua ultima sull’almanacco. Nel corso delle varie edizioni c’è qualcosa che ti fece particolarmente piacere leggere?

“Oltre alle parole di Coppitelli che hai citato prima, ti do una risposta che potrebbe sembrare banale: la pagina intera. Mi spiego meglio: per me il solo fatto di essere inserito sull’almanacco era una gioia incredibile, indipendentemente da cosa ci fosse scritto. Il paragone, il “Dicono di lui”, le belle parole ovviamente fanno piacere, ma a me bastava esserci. Faccio fatica a scegliere qualcosa in particolare. Quello che posso dire è che mi sono sempre ritrovato nella descrizione delle caratteristiche”.  

Torniamo all’estate post Sambenedettese per parlare dell’ultimo step della tua carriera. Passi al Lecco e come allenatore ritrovi proprio Mauro Zironelli.

“Esatto. Ero contentissimo perché con lui avevo costruito un grande rapporto e perché riponeva in me tanta fiducia. Infatti giocai parecchio. Poi purtroppo venne esonerato e al suo posto arrivò Luciano De Paola. Non lo conoscevo e non sapevo che tipo di mister fosse, ma l’impatto fu subito ottimo, sia a livello di risultati che di rapporto personale. Lui è bravissimo a lavorare sul carattere: sa tirarti fuori motivazioni ed energie che non sai nemmeno di avere. Siamo riusciti a qualificarci per i playoff (che purtroppo ho saltato per squalifica), ma siamo stati eliminati. In estate si verificò praticamente la stessa situazione dell’anno prima, con tanti rumors che mi volevano in Serie B, ma niente di veramente concreto. Decisi quindi di rinnovare con il Lecco, ma non fu una scelta di ripiego: mi ero trovato benissimo ed ero molto contento di rimanere”.

Nel corso dell’intervista mi ha colpito la schiettezza con la quale hai parlato delle varie tappe della tua carriera, comprese quelle non particolarmente felici. E mentre raccontavi i periodi difficili, nelle tue parole non ho mai notato rimpianti. Ne hai qualcuno? Penso ad esempio alla Nazionale…

“Eh, alla Nazionale ci ho pensato spesso. Sarei ipocrita se dicessi che non ho mai sperato in una chiamata. Nella mia esperienza al Cuneo, però, ho avuto l’occasione di far parte della Nazionale Lega Pro e di andare a Coverciano. Di emozione mi tengo quella, che comunque fu speciale”.

Guardando in avanti, invece, cosa vedi nel tuo futuro?

“A breve termine voglio crescere ancora. Mi piace confrontarmi con i giocatori più esperti per capire dove e come migliorare. Anche perché sono dell’idea che non si smetta mai di imparare. A lungo termine voglio arrivare ad alti livelli per coronare i miei sogni e, soprattutto, per dare una soddisfazione a mia madre, che nella sua vita ha fatto enormi sacrifici per vedermi felice. Per lei, considerando il paesino dove sono partito e gli sforzi che ho fatto (anche se sarebbe meglio dire “che abbiamo fatto”), la C è già come se fosse la Serie A, ma io non mi accontento e punto sempre al massimo. Se dovessi veramente arrivare al top, credo che con i soldi guadagnati la prima cosa che farei sarebbe proprio sistemare la mia famiglia e ripagarla di tutto quello che ha fatto per me”.

Un desiderio che si sposa perfettamente con la persona che lo esprime: un giocatore umile, ma che non si pone limiti; un “marines” prestato al calcio, che ama difendere la porta invece di attaccarla; un ragazzo partito dal basso e determinato a raggiungere la vetta, senza dimenticare il campo base da cui ha iniziato il cammino.