L'intervista ad Alessandro Romairone: una storia di karma, tenacia e destino

Con il suo gol alla Pro Patria, ha portato alla salvezza la Pro Vercelli. Tra università e calcio, la storia di Romairone raccontata a La Giovane Italia
24.05.2025 11:00 di  Francesco Benincasa   vedi letture
©Alessandro Romairone
©Alessandro Romairone

Quella tra Alessandro Romairone e la Pro Vercelli è molto più di una semplice storia d’amore: è una vicenda di karma, tenacia e destino. Figlio d’arte, il padre Giancarlo è una figura storica per la città: prima da calciatore, poi da dirigente, riportò la Pro Vercelli in Serie B nel 2012 dopo ben 64 anni. Alessandro, invece, lo scorso dicembre non ha saputo dire di no alla chiamata della squadra della sua città. E, dopo un lungo percorso, l’ha condotta alla salvezza con un suo gol decisivo.

Partiamo dalla stagione appena conclusa: vi siete salvati ai play-out, e tu sei stato protagonista anche con un gol. Come giudichi questo finale e, più in generale, la vostra annata?

“L’ultima partita è stata sicuramente la più importante, perché ha coronato un percorso iniziato a dicembre, quando sono tornato a Vercelli su richiesta del direttore Musumeci. Mi ha voluto per le mie qualità tecniche, ma anche umane, conoscendomi già da una precedente esperienza e sapendo quanto significasse per me questa maglia, essendo di Vercelli. La squadra era in difficoltà, mancava identità e i risultati non arrivavano. Il mio ritorno è stato anche per dare un po’ di cuore vercellese al gruppo. Il gol di sabato è il simbolo di tutto questo percorso e ha dato senso sia alla scelta del direttore che alla mia decisione di tornare. A questa maglia non potevo dire di no”.

Hai parlato di questa maglia come di una seconda pelle. Torniamo indietro allora: com’è stato crescere con un padre che è stato calciatore e dirigente? Che influenza ha avuto su di te?

“Come in tutte le cose, ci sono pro e contro. Avere una figura come mio padre in casa è stato un grande aiuto, perché mi ha insegnato non solo aspetti tecnici, ma anche come comportarmi in un gruppo. Certo, portare il suo nome a Vercelli non è stato sempre facile. Tutti conoscevano quello che aveva fatto da giocatore e da direttore, e sentivo il dovere di dare qualcosa in più, anche per onorare ciò che ha lasciato alla società, come la storica promozione in Serie B dopo 64 anni. La retrocessione avrebbe cancellato anche parte di quella storia, e per questo ho sentito ancora più responsabilità”.

Qual è stato il tuo primo approccio con il calcio? Dove hai cominciato a giocare?

“Ho iniziato nella Pro Belvedere Vercelli, che poi ha fatto la fusione con la Pro Vercelli. Da lì ho proseguito il percorso nel settore giovanile della Pro fino agli Allievi. A metà stagione è arrivata la chiamata del Sassuolo e mi sono trasferito, lasciando per la prima volta casa. Ma dai Pulcini agli Allievi, sono cresciuto con quello stemma sul petto”.

Andare al Sassuolo da giovanissimo è stato sicuramente un cambiamento importante. Come hai vissuto questo passaggio lontano da casa, in un ambiente più strutturato?

“È stato un passaggio impegnativo ma fondamentale. Al Sassuolo ho trovato una società molto organizzata e un settore giovanile tra i migliori. A livello tecnico ho imparato tantissimo. Umanamente, è stata la mia prima vera esperienza fuori casa: ho lasciato gli amici, la scuola, la mia città. È stato un salto di maturità, ma rifarei tutto”.

Hai trovato difficoltà nell’adattarti a quel nuovo contesto?

“Difficoltà vere no, è stato impegnativo ma ho avuto una grande famiglia e amici che mi hanno sostenuto. Mi seguivano ovunque potessero. Non è stato facile, ma sono stato fortunato che amici e familiari mi sono sempre stati vicino”.

Con il Sassuolo vincete il Torneo di Viareggio. Che ricordi hai di quell’esperienza?

“Un’esperienza indimenticabile. Dovevo partire con la Berretti, ma mi aggregarono subito alla Primavera e restai tutto l’anno. Vincemmo il Viareggio con una squadra fortissima, anche se all’inizio non ci aspettavamo di arrivare così lontano. C'erano Scamacca,  Adjapong, MarinRavanelli... tutti giocatori che adesso giocano tra la Serie A e la Serie B. Ricordo i rigori contro la Fiorentina nei quarti, dove calciai uno dei rigori ad oltranza e c'era molta tensione e adrenalina. Se non sbaglio è stato il primo trofeo della storia del Sassuolo, lo ricordiamo ancora oggi e nel nostro gruppo WhatsApp lo celebriamo ogni anno”.

Poi il passaggio al Genoa: che tipo di esperienza è stata?

“Un’altra tappa importante. Mio padre aveva giocato lì, quindi sentivo il legame. Non è stato facile, perché c’erano giocatori molto forti come Altare, Zanimacchia, Salcedo. Ma ho sempre saputo farmi trovare pronto. Non sono mai stato il nome di punta, ma sempre affidabile, rispettato da compagni e allenatori per impegno e attaccamento”.

Dalla Primavera passi al Carpi e arriva l’esordio in Serie B. Com’è stato affrontare questo salto?

“È stato un salto notevole. In Primavera ti senti ancora “protetto”, ma in prima squadra cambia tutto: ritmi, responsabilità, ambiente. Al Carpi ho trovato Chezzi prima e poi Castori, che era stato allenatore anche di mio padre. È stata un’annata tosta ma mi ha fatto crescere molto, sia tecnicamente che umanamente. Ho esordito in Serie B contro il Foggia: un’emozione unica, anche se eravamo concentrati soprattutto sui risultati”.

Finisce la stagione e fai il tuo primo ritorno alla Pro Vercelli. Come nasce quella scelta?

“Esatto, quello è stato il mio primo ritorno a Vercelli. Già in estate si vociferava la possibilità, io intanto avevo cominciato il ritiro col Carpi. Poi, negli ultimi giorni di mercato di agosto, torno a Vercelli. Ero contento di rientrare "a casa", dove avevo iniziato il mio percorso dalle giovanili fino alla prima squadra. Ma questa volta non ero più un ragazzo del settore giovanile: tornavo da calciatore vero, per la prima squadra. L'allenatore era Gilardino, una persona speciale, che tra l’altro mi ha scritto proprio due giorni fa dopo il mio gol, felicissimo per la salvezza della Pro. Quell’anno con lui è stato importante, un'annata di crescita. A Carpi avevo imparato tanto, ma giocavo poco. A Vercelli, invece, ho iniziato a trovare più spazio: qualche presenza da titolare, molti ingressi a gara in corso. Per me è stato davvero il primo anno da calciatore professionista. Purtroppo, proprio nel momento in cui stavo crescendo, è scoppiato il Covid. Fortunatamente eravamo già salvi, perché quell’anno si sono disputati solo i playoff, mentre la nostra stagione si è chiusa a febbraio. È stata comunque un'annata importante, che mi ha preparato a quella successiva, ancora a Vercelli, con l’arrivo di ModestoModesto proponeva un calcio molto aggressivo, uomo contro uomo a tutto campo, simile a quello dell'Atalanta. Mi sono trovato molto bene, e anche quella è stata una stagione positiva: ho collezionato 5 o 6 presenze da titolare, altri ingressi dalla panchina, dando un buon contributo. Eravamo primi per gran parte della stagione, poi siamo calati un po’ nel finale e siamo usciti ai playoff, credo contro il Südtirol. Nonostante tutto, fu un’annata di cui eravamo davvero orgogliosi”.

Dopo queste due esperienze alla Pro Vercelli, scegli di scendere in Serie D: una scelta che all’apparenza può sembrare un passo indietro, ma in realtà ti ha portato minuti, gol e continuità. Come sei arrivato a questa decisione?

“Inizio quella stagione ancora alla Pro Vercelli, era il mio terzo anno tra i pro. Faccio tutta la preparazione, ma a inizio campionato vengo escluso dalla lista. Rimango fuori rosa, mi alleno con la squadra ma non posso giocare. Avevo 22 anni e l’idea di restare fermo fino a gennaio mi spaventava. Sentivo il bisogno di scendere in campo, di rimettermi in gioco. A metà novembre arriva la chiamata del direttore Canepa del Derthona. Decido di accettare, anche se per me non era un passo indietro, ma un trampolino per dimostrare il mio valore. All’inizio non è stato facile: la categoria è diversa, il calcio è un altro mondo. E poi a 22 anni vieni considerato già "vecchio", con la regola degli under che ti penalizza un po’. In quei primi sei mesi segno 4-5 gol, ma faccio fatica a trovare continuità. Decido comunque di restare al Derthona anche l’anno successivo, con la voglia di far vedere il mio vero valore. Da ottobre-novembre ritrovo Marcello Chezzi, l’allenatore che mi aveva già voluto a Carpi. Con lui mi trovo benissimo: segno 12 gol in 3-4 mesi e finalmente mi sento davvero valorizzato. Poi purtroppo mi infortuno alla caviglia e salto la seconda parte della stagione”.

“L’anno dopo speravo di tornare in Serie C, ma arriva la chiamata della Sambenedettese. È una piazza storica, che ha fatto la Serie B e che anche in D ha un pubblico da categoria superiore. Ho accettato subito. È stata un’esperienza incredibile: 6.000 persone allo stadio, gente che ti ferma per strada. Ho segnato all’esordio e per tre mesi sembrava avessi segnato in finale di Champions! Sono stati solo sei mesi, ma me li porterò sempre dentro. A dicembre, però, ho avuto meno spazio e quando è arrivata la proposta del Grosseto ho scelto di cambiare. Anche lì non è stato facile all’inizio, perché l’allenatore che mi aveva voluto, Bonuccelli è stato esonerato poco dopo il mio arrivo. È subentrato Malotti, che con la sua “follia” mi ha dato grande fiducia. Con lui ho fatto bene, segnando 5 gol. Abbiamo sfiorato la vittoria del campionato: siamo arrivati a tre punti dalla Pianese, perdendo la penultima. Una delusione, perché volevamo tornare in C vincendo il campionato. Abbiamo poi vinto i playoff, ma come sai valgono poco e niente. Quest’anno ho iniziato a Prato, un’altra piazza storica che in Serie D è un lusso. Le ambizioni erano alte, ma la stagione non è andata come previsto. A volte capita: squadra forte, ma le cose non girano. È stato un anno difficile, ma che comunque mi ha lasciato qualcosa”.

A dicembre sei tornato alla Pro Vercelli: com’è nata questa decisione e cosa ha significato per te?

“Come detto, tutto è iniziato con una chiamata del direttore Musumeci, che sapeva che stavo per lasciare Prato durante il mercato invernale. Avevo altre opportunità, ma lui mi ha detto chiaramente: "Ti voglio riportare alla Pro, perché so che puoi dare un contributo importante. In quel momento ho capito che non mi interessava altro: volevo tornare alla Pro Vercelli, anche se era un periodo difficile per la squadra. Per me era una chiamata dal cuore, e anche dalla Serie C, una categoria che speravo di riconquistare da tre anni. Siamo ripartiti da una situazione complicata, ma con l’arrivo di mister Banchini le cose hanno iniziato a cambiare, anche se è sempre difficile raddrizzare una stagione”.

"Sentivo la responsabilità di dare tutto per questa maglia, e segnare il mio primo gol tra i professionisti proprio nel playout è stato incredibile. Una storia di karma, tenacia e destino: ho aspettato mesi quel gol, ed è arrivato nel momento più importante.
Quel gol ha chiuso un cerchio: da capitano degli Allievi Nazionali della Pro, a lasciare casa, tornare, e poi salvarla. Un vercellese che salva la Pro Vercelli con un 1-0 decisivo: è qualcosa di speciale”.

Dopo il gol, sei corso sotto la tribuna. Cosa hai provato in quel momento?

“È stato un momento indimenticabile. Ho guardato verso la tribuna, c’erano i miei amici di sempre, quelli che mi seguivano già ai tempi degli Allievi, la mia famiglia, i miei genitori, le mie sorelle. Esultavano più di me. Un’emozione fortissima che porterò sempre con me. Permettimi di ringraziare mister Gardano per la fiducia che mi ha dato dal primo giorno che è arrivato per preparare il play out. Ringrazio anche capitan Comi, perché prima della partita aveva predetto il mio gol.”

Nel nostro Almanacco sei stato paragonato a Fabrizio Miccoli. Cosa ne pensi di questo paragone?

Miccoli è una leggenda, quindi il paragone è forse un po’ esagerato. Però a livello fisico qualche somiglianza c’è: siamo piccoli, tosti, difficili da spostare e non molliamo mai. E qualche gol, come quello da centrocampo contro la Sambenedettese, potrebbe ricordarlo”.

Chi erano i tuoi idoli da bambino? E oggi, c’è un calciatore a cui ti ispiri, anche tra quelli che hai affrontato o avuto come compagni?

“Da piccolo non tifavo per una squadra in particolare, quindi non avevo legami forti con i giocatori. Però nel 2006, quando abbiamo vinto il Mondiale, avevo sette anni: Totti e Del Piero erano i miei idoli. Avevo anche la maglia di Totti. Oggi mi dicono spesso che assomiglio, con le dovute proporzioni, ad Alvarez, quello che era al City e ora gioca all’Atletico Madrid. Per il modo di correre, di attaccare gli spazi, la grinta. Ho ricevuto anche il soprannome "El Kun", riferito ad Aguero, ma non ho mai voluto ispirarmi a un solo giocatore. Mi piace osservare tanto calcio senza legarmi troppo”.

Guardando al futuro: hai già pensato a cosa vorresti fare dopo il calcio? Ti piacerebbe seguire le orme di tuo padre?

“Non ho ancora deciso con certezza, ma ho tante idee. Mio padre è rimasto nel mondo del calcio, ha fatto il direttore sportivo in tutte le categorie partendo dall'Eccellenza fino alla Serie A, ed è un lavoro che mi affascina molto. In questi anni, però, ho voluto tenermi aperte anche altre strade. Mi sono laureato in psicologia e ora sto studiando economia. Volevo ampliare i miei orizzonti, sfruttare il tempo libero tra allenamenti e partite per costruirmi un futuro. La magistrale in psicologia l’ho lasciata da parte perché mi sembrava di chiudermi troppo in un solo ambito, mentre l’economia mi sta aprendo nuovi interessi. L’obiettivo è avere opzioni, per scegliere con consapevolezza e senza essere costretto. Fare il direttore sportivo mi piacerebbe molto, ma se la vita mi porterà lontano dal calcio, voglio essere pronto”.

Queste due carriere universitarie ti hanno aiutato anche nel tuo percorso da calciatore?

“Sicuramente. La psicologia ti apre la mente, ti aiuta a conoscerti meglio, a gestire le relazioni, a interpretare i comportamenti degli altri. Nel calcio è sempre più presente, perché può fare la differenza nella preparazione mentale di un giocatore e di un gruppo. Se un giorno farò il direttore sportivo, potrò unire queste competenze psicologiche e quelle economiche, arricchendo il mio ruolo con una visione più completa”.