Di Nardo si racconta a LGI: “È grazie a mio fratello se oggi sono qui”

Antonio Di Nardo ha trascinato a suon di gol il Campobasso ad un’importante salvezza in Serie C, dopo che lo scorso anno lo aveva guidato alla vittoria della Serie D e alla vittoria dello Scudetto Serie D. Arrivato dalla Vastese 2 anni fa, Di Nardo è diventato un vero e proprio punto di riferimento per la piazza molisana.
Ti chiedo un tuo punto di vista sulla stagione, sia dal punto di vista personale che collettivo.
“Allora, quest’anno secondo me, a livello di squadra, abbiamo fatto un campionato tutto sommato tranquillo. Siamo riusciti a salvarci con una giornata d’anticipo, quindi l’obiettivo è stato raggiunto. Essendo una neopromossa, la salvezza era la priorità: mantenere la categoria era fondamentale. Certo, si poteva fare meglio, sia a livello di prestazioni che di risultati, ma l’importante era restare in Serie C. Dal punto di vista personale, devo dire che è stato uno dei miei primi anni da protagonista in questa categoria, e sono contento di quello che ho fatto. Ho giocato praticamente dal girone di ritorno in poi al 70%, perché ho avuto qualche problema fisico. Nonostante questo, non ho voluto fermarmi perché non volevo lasciare i miei compagni da soli. Ora sto bene, e sono davvero soddisfatto: ho segnato 11 gol, sono andato in doppia cifra e ho fatto anche 4 assist. Sono felice di aver dato un contributo importante alla salvezza della squadra, e sono orgoglioso di questo".
Facciamo un passo indietro: tu inizi a giocare a calcio da piccolissimo. Nei nostri archivi risulta che hai cominciato a cinque anni nella scuola calcio Ardor Qualiano. Che ricordi hai di quel periodo? E la passione per il calcio ti è stata trasmessa da qualcuno, magari da tuo padre?
“Sì, la passione per il calcio me l’ha trasmessa mio padre. Lui non ha mai giocato, ma ha sempre amato questo sport, un po’ anche mia madre. Nessuno dei due era sportivo in senso stretto, però sia io che mio fratello siamo stati sempre indirizzati verso lo sport: calcio, un po’ di nuoto... per fortuna ho scelto il calcio! Ricordo che da piccolo scendevo sempre sotto casa a giocare, ogni pomeriggio, ogni mattina d’estate... giocavo solo a calcio, era la mia fissa. Quando ho compiuto cinque anni, siccome mio fratello – che è più grande di tre anni – già andava alla scuola calcio, i miei genitori mi hanno iscritto anche a me. Un aneddoto che ricordo con affetto riguarda un paio di scarpe da calcio rosse che usava mio fratello e poi sono passate a me. I lacci erano lunghissimi, e per allacciarle dovevo fare il nodo almeno 6-7 volte. Mi ricordo ancora io, piccolissimo, che giravo i lacci intorno alla scarpa! Bei ricordi... in quegli anni giochi solo per divertirti, e quello è il bello”.
Poi fai un percorso in varie realtà locali della tua zona, fino ad arrivare a Latina.
“Esatto. Dopo l'Ardor Qualiano, ho fatto un anno o due nella scuola calcio Ciro Caruso. Lì sono rimasto per tanti anni, facendo tutta la trafila. Dopo sono passato ai tornei nazionali e poi, sì, sono andato a Latina. Qui è iniziata la mia voglia di prendere il calcio più seriamente. Avevo 14-15 anni, giocavo negli Allievi e già venivo chiamato in Primavera. Ricordo ancora che segnai anche qualche gol con la Primavera. In quegli anni passai direttamente dagli Allievi alla Primavera, con l’allenatore Mark Iuliano. Lui poi passò alla Prima Squadra e portò anche me: a 15 anni mi allenavo già con i grandi. Lì ho iniziato davvero a capire cosa significa stare nel mondo del calcio professionistico”.
Quel passaggio a Latina ti ha portato anche lontano da casa: è stata anche un’esperienza di vita importante, no?
“In realtà la mia prima esperienza fuori casa l’ho fatta a Nocera. Avevo solo 13 anni e già mi ero trasferito lì, in convitto, facendo scuola e vivendo con i miei compagni. Già a 13 anni avevo iniziato a vivere fuori casa, e quella scelta mi ha fatto crescere tanto. Ricordo che a un certo punto dovevo scegliere: restare a Napoli, vicino casa, oppure seguire alcuni miei compagni che andavano a Nocera. Ho deciso di andare a Nocera, anche per fare un’esperienza diversa. Da piccolo pensi solo a divertirti, e per me quello era un modo per farlo. Ma col senno di poi è stata una scelta importantissima: mi ha aiutato tanto, non solo nel calcio, ma proprio nella vita. Ho imparato a stare da solo, a essere responsabile, a crescere. È un’esperienza che mi porto ancora dentro”.
Raccontami di Iuliano: com’è stato essere allenato da chi, come calciatore, ha vinto tanto?
“Devo ringraziarlo tantissimo. Come ti dicevo, ero negli Allievi Nazionali del Latina, iniziai a far bene e lui mi notò, portandomi subito in Primavera. Mi ricordo il primo allenamento: era un martedì, il mercoledì c’era un recupero tra Latina e Napoli Primavera. Mi allenai con loro e il giorno dopo fui convocato. A sorpresa entro nel secondo tempo, con un po’ di tensione perché il giorno prima stavo con gli Allievi. Il Napoli passa in vantaggio, ma poi segno subito il gol del pareggio e prendo anche un palo. Finisce 1-1. Poi il sabato successivo segno di nuovo contro la Ternana, e ancora dopo a Palermo, sempre con la Primavera, faccio gol. Tre partite, tre gol a 15 anni: sono ricordi che porto con me”.
Poi arriva la Samp e ti acquista. Da lì come va avanti la tua carriera?
“Sì, la Samp mi prende dal Latina. All'inizio è stata dura: non gioco, fatico ad ambientarmi, mi lamento molto. Però quella fase mi ha fatto crescere tanto, ho fatto un grande switch mentale. A gennaio torno in prestito a Latina in Primavera, ma anche lì è un anno complicato. L’anno dopo la Samp non vuole tenermi in Primavera, mentre il Latina mi propone di restare: accetto e divento capitano. Segno 14-15 gol fino a gennaio, tanto che mi nota la SPAL. Vado a fare il Torneo di Viareggio con loro: 3 gol in 4 partite. Rientro e vengo subito portato in prima squadra in Serie B. È stato un salto enorme, ma molto formativo. Dopo quell’esperienza firmo il mio primo contratto con la Sampdoria”.
Quando vai per la prima volta ad Arezzo, che difficoltà incontri entrando nel mondo dei grandi?
“Vado ad Arezzo contentissimo. Ricordo che c’erano altri attaccanti forti come Cutolo e Moscardelli, e il direttore mi disse chiaramente che non sarei partito titolare, ma avrei avuto le mie chance. Me le sono guadagnate e quell’anno ho fatto 31 presenze, molte da titolare. È stata una stagione storica: nonostante 20 punti di penalizzazione, ci siamo salvati direttamente. Grande soddisfazione”.
Poi fai Vis Pesaro, Lucchese, torni ad Arezzo… raccontami brevemente queste stagioni in Serie C.
“Dopo il primo anno ad Arezzo rinnovo con la Samp per altri 4 anni. La Samp aveva rapporti stretti con la Vis Pesaro e lì vado in prestito. Non gioco quasi mai, ma con l’allenatore Colucci imparo tanto. Dopo sei mesi vado a Lucca, poi di nuovo a Pesaro e poi ancora ad Arezzo. Però gioco pochissimo, spesso fuori ruolo, come quinto di centrocampo. Da attaccante era frustrante: ogni volta mi proponevano come punta, ma poi mi dicevano “hai fatto zero gol”. Ovvio, non giocavo nel mio ruolo. A quel punto ho detto: se devo smettere di fare il calciatore, voglio farlo a modo mio, da attaccante. Accetto di ripartire da zero, anche in Serie D. Vado a Nocera solo per allenarmi, ma l’allenatore non mi vuole. Mi rifiutano anche lì. Poi mi chiama il Sona, vicino Verona: non sapevo neanche dove fosse, ma accetto subito. Finalmente da attaccante, faccio 14 gol e mi rilancio. L’estate dopo provo ad andare in C, vado in prova a Potenza, ma non mi prendono. Mi chiama la Vastese per vincere la D, ma retrocediamo in Eccellenza. Un disastro... oggi ci rido su ma in quel momento non riuscivo a capire come uscirne... Poi arriva il Campobasso. Accetto subito, avevo sensazioni fortissime. Vado lì, faccio 18 gol, vinciamo il campionato e anche lo Scudetto di Serie D. Mi sono rilanciato davvero, ed è così che sono arrivato all’estate scorsa”.
In tutto questo percorso, c’è una figura che senti particolarmente vicina e alla quale vuoi dire grazie?
"Sì, assolutamente: mio fratello. Lo ringrazio ogni giorno, appena mi sveglio. È grazie a lui se sono arrivato fin qui, perché tante volte, anche quando io non ci credevo più, lui continuava a crederci. Mi ha aiutato tantissimo sotto tutti gli aspetti. Ti racconto un aneddoto: era il 2020, post-Covid, ero tornato ad Arezzo per il secondo anno. Andammo a vivere insieme lì, con l’idea di fare una grande stagione. Dopo sei mesi mi ritrovo fuori rosa. Stavo malissimo, pensavo fosse l’anno della rinascita, invece era un incubo. Mio fratello, però, mi disse: "Vogliamo arrenderci o vogliamo lavorare per la prossima stagione? Così, anche se ero fuori rosa, per 3-4 mesi ci svegliavamo alle 5 del mattino per allenarci. Non sapevo dove sarei andato a giocare, ma lavoravamo lo stesso. Andavamo su un campo comunale ad Arezzo, illuminato solo con i fari della macchina. Allenamenti su colpi di testa, tecnica, velocità. Poi tornavo a casa, colazione, allenamento di forza da solo, pranzo, e allenamento con i ragazzi fuori rosa. L’ho fatto per tre mesi. I miglioramenti che ho visto sono stati incredibili. Ecco perché mio fratello è la persona che ringrazierò per tutta la vita”.
Che ruolo ruolo ha per te lui nel calcio?
“Lui lavora come performance coach, lavora con tanti atleti a 360 gradi. Quindi il suo lavoro mi ha aiutato tantissimo. Siamo cresciuti insieme: mentre lui cominciava a costruirsi nel suo ambito, io iniziavo la mia rinascita. Abbiamo fatto tanta gavetta fianco a fianco”.
Nel nostro almanacco sei stato paragonato a Sergio Floccari. È un paragone in cui ti rivedi? C’è un calciatore a cui ti sei ispirato da piccolo o che segui ancora oggi?
“Oggi guardo molto Marcus Thuram: mi rivedo nelle sue caratteristiche, come l’attacco alla profondità, il movimento continuo. È un tipo di gioco che mi piace molto. Da piccolo guardavo tanto Ibrahimovic, anche se il mio idolo è sempre stato Messi. Sono un malato del Barcellona e dell’Argentina. Però, a livello di caratteristiche, Ibra mi ha sempre colpito. A me piace muovermi, attaccare gli spazi, non restare fermo come le punte classiche. Mi piace svariare su tutto il fronte offensivo”.
E per il futuro? Anche se è presto, hai già in mente cosa ti piacerebbe fare quando smetterai di giocare?
“A dire il vero, no, non ne ho ancora idea precisa. Mi piacerebbe creare una mia squadra, un mio club. Non come allenatore o direttore, ma proprio gestire una società. Magari un giorno, insieme a mio fratello, compreremo una squadra. Chissà. Ma per ora è solo un’idea. Ho 26 anni. Altri 14 anni di carriera… poi si vedrà!”.