Dalla Sardegna all’Australia: la nuova vita di Nicholas Pennington

Cresciuto nel Cagliari e maturato in Serie C con l’Olbia, oggi Pennington gioca nella A-League australiana. LGI lo ha incontrato a fine stagione.
16.05.2025 10:00 di  Francesco Benincasa   vedi letture
©nicholaspennington_
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Cresciuto fin da piccolo nel Cagliari, Nicholas Pennington ha giocato alcune stagioni in Serie C con l’Olbia prima di volare via… Negli ultimi anni infatti, ha deciso di cambiare vita: ha preso un aereo ed è volato dall’altra parte del Mondo, in Australia. Qui ha debuttato con la Nazionale australiana Under 23 e, da qualche stagione, gioca nella A-League. In un calcio diverso, ma comunque di alto livello, Pennington ha appena concluso la sua stagione, e noi di LGI siamo "andati a trovarlo".

Direi che quella appena conclusa è stata una stagione positiva, almeno dal punto di vista personale. Raccontaci un po’ com’è andato quest’ultimo anno.

"Sì, direi che a livello personale è stata una stagione abbastanza positiva. Ho giocato la maggior parte delle partite e mi sono comportato bene. Alla fine, i miei compagni mi hanno votato come miglior giocatore della squadra, quindi è stata una bella soddisfazione. Purtroppo, come squadra non è andata benissimo: non abbiamo raggiunto gli obiettivi prefissati. Per fortuna, nella A-LEAGUE non ci sono retrocessioni, quindi siamo stati fortunati sotto quel punto di vista. A livello collettivo non è stata una grande annata, ma io personalmente mi sono trovato molto bene nella nuova squadra e penso di aver disputato un buon campionato. Ho dato tutto e sono soddisfatto”.

Riavvolgiamo un attimo il nastro, perché la tua storia è davvero interessante. Hai cominciato a giocare molto presto, a tre anni, nella Vis Aurelia. Com’è nata la tua passione per il calcio?

“Come succede a tanti bambini, la passione per il calcio nasce in famiglia. Mio padre è molto appassionato di calcio inglese ed è cresciuto con quello. Mio nonno, invece, è italiano, super tifoso del Milan, anche lui appassionatissimo. Quando c’era mio padre mi accompagnava lui, altrimenti ci pensava mio nonno. Ho anche un fratello maggiore con cui giocavo sempre. Insomma, il calcio è sempre stato presente nella mia famiglia. Da piccolo, a Roma, ho giocato per anni nella Vis Aurelia, una squadra vicino casa. Da lì è cominciato tutto”.

Tuo padre è inglese. Per quale squadra tifa?

“Lui è di Bristol, quindi segue il Bristol City, che gioca in Championship. Sono appena stati eliminati dai play-off, quindi era un po’ deluso… però non è mai stato un tifoso sfegatato, gli piace seguire il calcio in generale”.

Da giovanissimo ti trasferisci in Sardegna, dove inizia la tua storia col Cagliari.

“Mia nonna, la madre di mia madre, è sarda. Ogni estate passavamo le vacanze in Sardegna. Avevo nove anni quando ci siamo trasferiti. Mio padre è pilota d’aereo e spesso era all’estero per lavoro. Tornare in Italia per lui andava bene ovunque, quindi ci siamo trasferiti a Cagliari perché ci eravamo innamorati di quel posto. Avevamo anche dei parenti lì, grazie alla famiglia di mia nonna. Appena arrivato, ho partecipato a un camp a Villacidro, il paese d’origine di mia nonna. Un signore che conosceva qualcuno al Cagliari mi ha visto giocare e mi ha portato a fare un provino. È andata bene, mi hanno preso e da lì ho fatto tutto il percorso, dai nove fino ai diciotto-diciannove anni, sempre a Cagliari”.

Hai sentito tanto il cambiamento rispetto alla Vis Aurelia? A Cagliari, in fondo, è iniziata una nuova vita, sia umana che calcistica.

“Mi sono adattato bene, però la differenza si sente. Sei in una società professionistica, e tutte le persone che giocano a calcio - i bambini, i genitori - aspirano a quel mondo. Sai che ci sono tanti bambini che vorrebbero essere al tuo posto. Questa cosa la percepisci, mentre al Vis Aurelia non la sentivi. Lì era tutto più leggero. Invece, quando ogni anno arrivano 10-15 bambini a fare il provino, anche se sei piccolo, capisci che devi essere sempre il migliore per tenerti il posto. È una pressione che ti fa vivere il calcio in modo diverso, meno spensierato. Al Vis Aurelia si giocava solo per divertirsi. Nella società professionistica, anche se hai 10 o 11 anni, devi già dimostrare il tuo valore. Altrimenti il tuo posto può prenderlo qualcun altro. Questa è stata la differenza più grande. Poi, col tempo, ti ci cali dentro, ti abitui, e vai avanti”.

In questo tuo percorso al Cagliari, c’è un anno che ricordi con particolare piacere? Prima di parlare dell’esperienza in Primavera, dove hai fatto veramente delle annate importanti.

“Sì, sicuramente la Primavera è il periodo che ricordo con più piacere. È stato il momento in cui ho avuto più successo e mi sono anche divertito di più, tra tutte le giovanili del Cagliari. Prima della Primavera, ero considerato positivamente, ma non ero mai uno dei titolari fissi. Ogni anno - dai Giovanissimi Provinciali, poi i Regionali e i Nazionali - era sempre una lotta per giocare e per fare lo step successivo. Però mi divertivo comunque, perché ogni stagione era una sfida. Giocavi contro squadre importanti. Uno dei ricordi più belli di quel periodo è il torneo 'Manlio Selis', che si gioca in Sardegna. In quell’occasione abbiamo battuto il Chelsea e se non sbaglio pareggiato con la Juve. Era una delle prime volte che affrontavamo squadre di alto livello. Credo sia uno dei ricordi più belli prima dell’esperienza in Primavera”.

Parliamo allora della Primavera. Perché lì il tuo nome inizia davvero a farsi conoscere, anche nell’ambiente. Raccontaci un po’ com’è stato l’approccio con quella realtà e come si è sviluppato il tuo percorso. Tra l’altro, anche Max Canzi ha parlato molto bene di te in quegli anni.

“Sì, devo tanto a mister Canzi. Prima di lui avevo fatto un anno con gli Allievi, con Gianluca Festa, che è stato un ottimo allenatore, mi ha fatto crescere molto. Poi è arrivato Canzi in Primavera. Partecipammo a un torneo a Zagabria e mi misi in luce. L’anno successivo, anche se ero tra i più giovani, mi diede spazio. Canzi era molto meritocratico: se meritavi di giocare, giocavi. Altrimenti, niente. Ho sempre dato tutto e le mie prestazioni sono state premiate. Sono stati due anni bellissimi, fino a quando ho preso una brutta squalifica. Prima di quell’episodio, la Primavera è stata una delle esperienze più formative della mia carriera”.

Vuoi raccontarci di quel periodo della squalifica? Cosa ti ha insegnato?

“Certo, non ho problemi a parlarne. Ero capitano e ho avuto una discussione con l’arbitro. A un certo punto ho fatto un brutto gesto, ho strappato il cartellino. Non l’ho fatto con cattiveria, ma resta un gesto sbagliato e mi meritavo una squalifica. Non ho mai capito perché sia stata così lunga - sei mesi mi sono sembrati eccessivi - ma mi ha fatto crescere molto. Mi ha fatto capire quanto tenessi al calcio. Quando poi sono andato in prestito all’Olbia, ho dato tutto, perché sapevo che quella era un’opportunità importante dopo tanto tempo lontano dal campo”.

All’Olbia cominci a muovere i primi passi tra i professionisti. Com’è stato entrare nello spogliatoio di una prima squadra?

All’inizio è stato difficile. Venivo da una lunga squalifica e non conoscevo nessuno. Era anche la prima volta che lasciavo la città in cui ero cresciuto. Ma sul campo mi sono ambientato subito bene. Ho giocato tanto e alla fine sono rimasto all’Olbia per quattro anni. L’unico rimpianto è non aver ottenuto risultati migliori, come raggiungere i play-off. Però per il resto è stata un’esperienza fondamentale”.

Torniamo un attimo a Cagliari. C’è qualcuno a cui senti di dover dire grazie in particolare?

“Oltre a mister Canzi, che mi ha dato fiducia in primavera, sicuramente Gianfranco Matteoli. È stato il primo a vedermi e ha sempre creduto in me. Negli ultimi anni poi la società è cambiata e lui non c’era più, ma resta una figura importante per me”.

Dopo Olbia, decidi di cambiare vita. Com’è nata la scelta di andare dall’altra parte del mondo?

“All’ultimo anno a Olbia mi avevano proposto un buon contratto, mi avevano detto che avrei potuto diventare il futuro capitano. Ma sentivo il bisogno di cambiare. Volevo provare qualcosa di nuovo. Ero stato con la nazionale australiana Under 23 e dopo la stagione ho ricevuto l’offerta dal Wellington Phoenix. L’ho vista come un’opportunità per usare il calcio per esplorare il Mondo. Mi sono detto: al massimo torno in Serie C. Invece mi sono trovato benissimo. Il calcio lì è bello, ci sono valori che mi piacciono. Ad oggi sono davvero contento di quella scelta”.

Quali sono le principali differenze tra il calcio italiano e quello australiano? E che difficoltà hai trovato all’inizio?

“La differenza principale è l’approccio. In Italia il calcio è tutto. In Australia è uno sport tra tanti, lo vivi con più leggerezza. Questo si riflette anche nello spogliatoio: c’è meno gelosia, più apertura. E poi tanti ragazzi studiano o hanno interessi extra, cosa rara in Italia. Anche i tifosi vivono il calcio in modo più sano. Se perdi una partita, il giorno dopo puoi comunque andare a prenderti un caffè in tranquillità. In Italia, a volte, anche se raramente, succede il contrario. L’adattamento più complicato è stato sul campo: lì il calcio è molto fisico, meno tattico. Ho dovuto adattarmi a questo tipo di gioco”.

Immagino che saper parlare diverse lingue ti abbia aiutato molto…

“Sì, sicuramente. Anche se all’inizio ho fatto un po’ fatica con lo slang australiano. Ma me la cavo bene con le lingue e ho legato con tutti, anche con compagni spagnoli e francesi”.

E quanto ti ha aiutato il percorso di studi?

“Molto. Nei momenti difficili, quando magari non giochi, lo studio diventa un rifugio. Ti dà un equilibrio. Tornavo a casa, studiavo e questo mi faceva stare bene. Oltre a questa via di fuga, mi piace ciò che studio, quindi lo faccio con leggerezza e soddisfazione”.

Parliamo della Nazionale. Che effetto ti ha fatto giocare per l’Australia, essendo nato in Italia? 

“Quando ho giocato con l’Under 23 australiana non ero mai stato in Australia. Quindi all’inizio non mi sentivo particolarmente legato. Era quasi come giocare per una squadra di club. Solo ora, vivendo lì da qualche anno, sto capendo di più la cultura e quanto ci tengano. All’epoca era tutto molto distante”.

E i tuoi compagni come ti hanno accolto?

“Mi hanno fatto sentire benvenuto. In Australia ci sono molti giocatori con doppia cittadinanza - italiani, greci, inglesi - quindi è una cosa abbastanza comune. Non ero visto come un estraneo”.

Parlando della tua esperienza attuale, qual era il tuo obiettivo quando sei partito? Hai sempre avuto in mente, o hai tuttora, l’idea di tornare nel calcio italiano, oppure per ora preferisci continuare questo percorso?

“Ovviamente, se un giorno dovessi riuscire a tornare ad alti livelli, sarebbe un obiettivo assolutamente presente. Ho 26 anni, quindi il tempo c’è. Però non è qualcosa a cui penso ogni giorno. Sto talmente bene dove sono adesso che non sento la pressione di dover tornare in Europa a tutti i costi. Anzi, mi piacerebbe fare anche altre esperienze, magari in Asia: Giappone, Corea… oppure in altre squadre australiane, come Melbourne o Sydney, città dove non ho ancora vissuto. Quindi sì, tornare in Europa mi piacerebbe, ma solo in contesti dove ne valga davvero la pena, per livello e opportunità. In questi anni ho ricevuto diverse proposte dalla Serie C, ma non ho mai sentito davvero l’interesse o la motivazione a tornare. Deve essere qualcosa che mi stimoli davvero, altrimenti preferisco continuare su questa strada”.

A proposito: nel nostro Almanacco sei stato inserito in due edizioni, e in una sei stato paragonato ad Ekdal, nell’altra a Parolo. In quale dei due ti rivedevi di più, in quel periodo? E, seconda domanda, chi è sempre stato il tuo idolo da bambino?

“Devo dire entrambi, per motivi diversi. Ekdal, ad esempio, giocava al Cagliari proprio quando io andavo allo stadio, quindi era un punto di riferimento. Mi piaceva molto il suo stile, e mi ci sono sempre rivisto in termini di caratteristiche in campo. Ovviamente, parliamo di un giocatore molto forte. Anche Parolo, però, è stato un paragone interessante. Avevamo lo stesso procuratore in passato, e lui mi raccontava spesso che ci somigliavamo, sia come personalità sia come atteggiamento e stile di gioco. Parolo era uno di quei giocatori fondamentali per la squadra, anche se magari non appariva tanto. Entrambi erano giocatori "silenziosi", ma decisivi. E io mi sono sempre rivisto in questo tipo di ruolo. Come idolo da bambino, il primo che mi ha fatto innamorare del calcio è stato Kakà. Guardavo il Milan con mio nonno e per me lui era il più forte in assoluto. Poi, con mio padre, c’era anche una passione per Paul Scholes: un altro centrocampista che ammiravo tanto”.

Oggi c’è qualche giocatore al quale ti ispiri?

“Ti dico questa. Non parlando di calcio, in A-League c’è stato Juan Mata e ho avuto la fortuna di parlarci quando ci ho giocato contro, oltre avere degli amici che giocano con lui e me ne parlano. Lui mi piace tantissimo con ciò che ha fatto con la sua carriera e quello che ha fatto fuori dal campo. Adesso mi piace molto guardare i calciatori oltre il calcio e lui è davvero uno da cui prendere ispirazione per ciò che fa”.

Da quanto ho capito, hai iniziato già da tempo a pensare a un percorso alternativo al calcio, giusto? Quando arriverà il momento di smettere, che intenzioni hai?

“Sì, esatto. Sto studiando Scienze Ambientali: sto portando avanti una triennale insieme a un master online. Se tutto va come previsto, tra un paio d’anni dovrei riuscire a completare anche questo percorso. Mi piacerebbe molto lavorare in questo ambito, magari in un contesto che mi permetta di stare all’aria aperta, a contatto con la natura. Allo stesso tempo, però, so già che il calcio mi mancherà. È stato parte della mia vita per così tanto tempo che credo vorrò restare legato a questo mondo, anche solo come allenatore di bambini. Penso che sarà un equilibrio tra le due cose. Vedremo come mi sentirò tra qualche anno. Al momento non so ancora dove sarò o cosa farò esattamente, ma so di poter contare su una famiglia che mi supporta sempre”.