Il Milan, la Nazionale e l'esperienza con Zeman: ecco Piccinocchi

Il sogno Milan, l'esperienza in Nazionale e il ritiro con Zeman a Lugano. Oggi è un leader e pilastro dell'Alcione Milano.







02.05.2025 10:00 di  Francesco Benincasa   vedi letture
Piccinocchi ©Alcione Milano
Piccinocchi ©Alcione Milano

L’Alcione Milano ha appena concluso la stagione centrando l’obiettivo prefissato: la salvezza nel girone A di Serie C. Da neopromossa, ha addirittura sfiorato i playoff, mancati per pochi punti. Questa settimana sotto la nostra lente di ingrandimento abbiamo messo Mario Piccinocchi, leader e trascinatore ormai da 4 stagioni della squadra milanese.

Iniziamo dalla stagione appena conclusa, l’Alcione Milano ha sfiorato da qua, facci una tua analisi.

“È stata una stagione molto positiva: l’obiettivo salvezza è stato raggiunto con facilità. A gennaio abbiamo sperato nei playoff, ma il ritorno è stato più duro e li abbiamo mancati. Restano comunque ottime sensazioni: non abbiamo mai rinunciato alla nostra identità e tanti ragazzi hanno vissuto la loro prima esperienza tra i professionisti.”

Come nasce la tua passione per il calcio? Vieni da una famiglia di sportivi o è una passione nata spontaneamente?

“La passione nasce grazie a mio padre, che ha giocato a buon livello fino ai vent'anni. Era un grande tifoso del Milan e di Cruyff, e mi ha trasmesso l’amore per il calcio. Anche mia madre mi ha sempre supportato, accompagnandomi ovunque. Fin da piccolo amavo giocare e pensare al calcio: è stato tutto molto naturale, favorito anche dall’ambiente familiare.”

Hai iniziato all’Aldini-Bariviera prima del Milan. Com’è stato quel periodo?

“In realtà ho iniziato a Cornaredo, nella squadra dell’oratorio, il Virtus Cornaredo. Ci sono rimasto a lungo per via del bel gruppo. Poi sono passato all’Aldini-Bariviera, storica rivale dell’Alcione. Era già un livello alto e lì ho avuto la fortuna di incontrare tre allenatori fondamentali: Matteucci, Buono e Gan. Credo che tra i 10 e i 15 anni gli allenatori siano determinanti, e io ho avuto davvero buone guide: da lì è arrivata la chiamata del Milan.

Com’è arrivata la scelta del Milan e quali difficoltà hai incontrato all'inizio, considerando anche l'interesse di altre squadre come Atalanta, Inter e Chievo?

“Nel mio terzo anno all’Aldini diverse squadre si interessarono a me, tra cui Atalanta e Milan, con i primi che sembravano convinti già da tempo. Ma quando il Milan mi ha chiamato, dopo un incontro emozionante con Filippo Galli, non ho avuto dubbi: ero tifoso fin da piccolo e ho accettato subito.”

“La mia fortuna è stata entrare in un gruppo molto forte, quello dei 1995, che l’anno prima aveva vinto il campionato giovanissimi nazionali. Nel mio ruolo c’era Brian Cristante, che però salì di categoria, lasciando spazio proprio a me. Il passaggio non è stato semplice: ho faticato il primo mese ad adattarmi, ma poi tutto è andato bene.”

“Ho avuto un allenatore fondamentale, Omar Danesi, che mi ha dato subito fiducia e riconosciuto qualità importanti. Il Milan puntava molto su tecnica e velocità di pensiero: caratteristiche che sentivo mie, quindi mi sono inserito bene fin da subito.”

Torniamo al Milan tra poco. Prima, però, ti chiedo: che emozione è stata indossare la maglia della Nazionale? Che cosa puoi dirci della prima convocazione?

“Ho un aneddoto curioso legato alla mia prima convocazione. Prima ancora di essere chiamato, ero stato inserito nel primo "Almanacco de La Giovane Italia" e nella sezione “Chi ci ricorda” compariva il nome di Daniele Zoratto, che all’epoca non conoscevo. Poco dopo, ricevetti la convocazione in Under-17 e l’allenatore era proprio lui. Mi venne da ridere e pensai: “Ovvio che mi chiama…se ricordo lui!”

“Con la Nazionale ho giocato in Under-17 e Under-19, prima con Zoratto e poi con Pane. Finché non entri in campo non realizzi fino in fondo cosa significhi, ma quando canti l’inno con la maglia dell’Italia addosso è un’emozione fortissima. Hai l’opportunità di rappresentare il tuo paese, partecipare a qualificazioni, fasi finali, confrontarti con nazionali forti. Ricordo partite contro Germania e Francia: c’erano giocatori come Goretzka. E poi conoscere Coverciano, respirare la storia della Nazionale... un’esperienza davvero unica.”

Torniamo al Milan: hai fatto tutto il percorso nel settore giovanile, fino alla Primavera, vincendo anche il Torneo di Viareggio. Che esperienza è stata?

“L’esperienza in Primavera è stata lunga e formativa. Il Milan, in quegli anni, non aveva la squadra Berretti, quindi noi Allievi venivamo spesso chiamati in Primavera anche contro ragazzi più grandi. È stato un percorso di crescita importante. Ho partecipato a tre edizioni del Viareggio: nella seconda siamo arrivati in finale, persa contro l’Anderlecht, e nell’edizione successiva abbiamo vinto, con Inzaghi allenatore."

“Allenarsi a Milanello, stare a contatto con la prima squadra, confrontarsi ogni giorno con giocatori ambiziosi e di alto livello è stato speciale. Dopo il terzo anno in Primavera sono andato in ritiro con la prima squadra, ma purtroppo lì ho avuto un infortunio serio che mi ha condizionato per tutta la stagione successiva. Nonostante questo, ho avuto la possibilità di vivere da vicino diverse generazioni del settore giovanile, dai ’92-’93 fino ai ’98-’99 come Locatelli, Cutrone, Donnarumma. Un’esperienza molto ricca.”

Hai qualche ricordo di quei campioni conosciuti durante i ritiri estivi? Qualcuno che ti ha colpito per come si comportava con i giovani?

“Ricordo con affetto Antonio Nocerino: sempre disponibile, cercava di metterti a tuo agio, anche se non è semplice in quei contesti. Ho un bel ricordo anche di Muntari, che una volta venne a giocare con la Primavera e si mise totalmente a disposizione: si vedeva che voleva aiutare. In generale, il gruppo degli italiani cercava sempre di dare una mano ai ragazzi del vivaio, anche solo con un consiglio o un gesto.”

E in tutti questi anni di Milan, c’è una figura in particolare che senti di dover ringraziare?

“Ce ne sarebbero tante, ma su tutte Filippo Galli. È stato lui a scegliermi, ma soprattutto mi ha trasmesso valori che vanno oltre il calcio: un’educazione alla vita che ancora oggi cerco di portare con me e di trasmettere agli altri.”

Finita l’esperienza con la Primavera, inizia per te il calcio professionistico. Vai a Vicenza, ma poi subito passi al Lugano. Che difficoltà hai trovato nel fare il salto tra i “grandi”?

“È stato tutto abbastanza particolare. Dopo l’ultimo anno in Primavera, in cui avevo giocato pochissimo a causa di un infortunio, il Milan mi propose di restare sotto contratto e andare in prestito. Ma preferii firmare con il Vicenza, in Serie B, per sentirmi davvero parte di una squadra. Curiosamente, non ho mai messo piede a Vicenza: ho firmato a Milano, e poco dopo mi ha chiamato il mio procuratore dicendomi che il Lugano era interessato. Lì c’era Zeman in panchina, e appena ho sentito il suo nome non ci ho pensato due volte. Il Vicenza, che mi aveva messo sotto contratto ma non mi riteneva ancora pronto, ha accettato volentieri il prestito.”

Quindi la tua prima vera stagione da professionista è con il Lugano, sotto Zeman. Che impatto ha avuto per te questo cambiamento, anche a livello di cultura calcistica?

“È stato un salto importante. Passare dal “mondo ovattato” del Milan al calcio reale è un cambiamento netto: fuori da Milanello tutto è più semplice, più “umano”. Con Zeman ho fatto un po’ la prova del nove: dopo un anno fermo, non sapevo se sarei riuscito davvero a fare il calciatore. Quel ritiro durissimo è stato un banco di prova, ma alla fine è stata la stagione in cui mi sono sentito meglio fisicamente.”

Quindi le famose leggende su Zeman e la fatica sono vere?

“Assolutamente sì! In Svizzera poi c'è la pausa invernale, quindi abbiamo fatto due ritiri completi: sembrava di vivere in ritiro tutto l’anno. Ma ho avuto la fortuna di trovare un gruppo di ragazzi fantastico, molti più esperti, che mi hanno accolto e aiutato a crescere. Con alcuni di loro sono ancora in contatto.”

"È stata una stagione tosta: su dieci squadre, l’ultima retrocedeva e noi puntavamo a essere noni. Ci siamo salvati all’ultima giornata e siamo arrivati fino alla finale di Coppa, che poi abbiamo perso. A livello tecnico non è stato facile: Zeman chiedeva di giocare sempre in profondità, mentre io venivo da un calcio più posizionale, fatto di fraseggi e gioco “sulla figura”. All’inizio facevo fatica ad adattarmi alla sua idea, ma lui mi ha dato fiducia e mi ha fatto giocare tanto. È stato un anno fondamentale per la mia carriera.”

Dopo l’esperienza al Lugano, torni in Italia all’Ascoli. Com’è andata?

“Non è stato facile, ma alla fine è stata una bella esperienza. Venivo da quattro anni a Lugano, dove avrei anche potuto restare, ma sentivo il bisogno di nuovi stimoli e volevo misurarmi con il calcio italiano, che era sempre stato il mio sogno. Quando è arrivata l’opportunità dell’Ascoli in Serie B, l’ho colta subito.”

“Le difficoltà sono iniziate già dal ritiro, per via della gestione della rosa. Ho stretto i denti e mi sono guadagnato un po’ di spazio. Poi è arrivato il Covid, che ha stravolto tutto. Al rientro ho avuto un infortunio muscolare e non sono più riuscito a rientrare in campo, ma è stata comunque una stagione importante: ho vissuto lo stadio italiano, giocato in piazze storiche e mi sono confrontato con giocatori di alto livello.”

Poi dall’Ascoli ti svincoli e passi al Seregno in Serie D.

“Sì, avevo un’opzione di rinnovo legata alle presenze, che però non ho raggiunto. Sono rimasto svincolato da agosto a febbraio, un periodo complicato anche per via del Covid: era difficile trovare una squadra o anche solo allenarsi con un gruppo, per il timore dei contagi. Mi allenavo da solo, cercavo campi, provini… ma nulla è andato in porto fino a febbraio, quando è arrivata la chiamata del Seregno. Lì ho trovato un ambiente particolare, ma una squadra forte: abbiamo vinto il campionato e quella promozione mi ha permesso di rimettermi in gioco dopo mesi difficili.”

Poi arriva l’Alcione: riparti ancora dalla D, e dopo qualche stagioni porti la squadra in Serie C.

“Esatto, sono molto orgoglioso di quel percorso. A Seregno non avevo fatto abbastanza per guadagnarmi la conferma, ma non l’ho vissuta male. Il direttore sportivo che mi aveva portato lì mi ha poi offerto l’opportunità di andare all’Alcione, una scelta comoda anche a livello logistico: era vicino casa, mi ero appena sposato e avevo bisogno di stabilità.”

"Lì ho trovato persone che hanno creduto in me, come il direttore Matteo Mavilla e mister Giovanni Cusatis. Mi hanno affidato il centrocampo e anche un po’ lo spogliatoio. La società era ambiziosa, con un progetto chiaro per arrivare tra i professionisti, e ce l’abbiamo fatta nei tempi previsti. Questo ha creato un grande senso di appartenenza e orgoglio, che ci ha aiutato nei tre anni in D e ora anche in C.” 

Ti faccio le ultime due domande. La prima riguarda una curiosità: nel nostro almanacco sei comparso in diverse edizioni e spesso sei stato accostato ad altri calciatori. Uno in particolare che ti veniva associato era David Pizarro, un centrocampista della nostra generazione, noto per il suo stile di gioco tecnico e per giocare molto “a figura”, come dicevi anche tu venendo dal Milan. Ti ci rivedevi in lui? E da ragazzo, chi erano i tuoi modelli di riferimento?

“Sì, in Pizarro mi rivedevo abbastanza, soprattutto per le geometrie di gioco. In quegli anni ero anche incaricato dei calci piazzati – punizioni, angoli – proprio come faceva lui, quindi c’era un certo parallelismo. Crescendo, forse il paragone più coerente sarebbe stato con Jorginho, anche se siamo quasi coetanei e quindi non potevo prenderlo a modello da ragazzino. Il mio vero riferimento è sempre stato Pirlo: per la mia generazione era il regista per eccellenza.”

“Essendo milanista e giocando nel settore giovanile del Milan, gli allenatori mi dicevano che dovevo essere un mix tra Pirlo e Gattuso. Alla fine sono finito un po’ nel mezzo, ma era inevitabile che Pirlo fosse il mio punto di riferimento principale.”

Oggi c’è ancora un giocatore da cui cerchi di imparare? Non per forza un campione da Champions League, magari anche qualcuno affrontato nei dilettanti o in Serie C, che ti ha colpito e da cui pensi di poter ancora “rubare” qualcosa con lo sguardo?

“Sì, ce ne sono tanti. Anche quest’anno in Serie C ho visto due o tre giocatori che mi hanno colpito molto. Continuo a guardare spesso Jorginho, ho tanti suoi clip e video, soprattutto del periodo a Napoli: mi piaceva moltissimo come interpretava il ruolo. Un altro che mi è piaciuto tanto è stato Valdifiori, soprattutto quando giocava nell’Empoli di Sarri. Era molto elegante e preciso nel gioco: da lui ho cercato di apprendere tanto.”

Ultima domanda, una volta che finirai la tua carriera da calciatore cosa hai mente di fare?

Il mio sogno è restare nel mondo del calcio. Mi piacerebbe allenare e mi sto già preparando a questo scopo. Ho conseguito la laurea triennale in Scienze Motorie, ho frequentato i corsi Uefa C e Licenza D, e possiedo il patentino Uefa B per allenare. Da calciatore ho sempre cercato di sfruttare il mio tempo libero per formarmi e farmi trovare pronto, qualora si presentasse un’opportunità. Non so dire quando accadrà, ma nella mia carriera ho avuto diversi infortuni che, pur non condizionandomi più, mi hanno spinto a riflettere su come essere pronto quando arriverà una possibilità per il futuro. Per adesso non so quando questo accadrà, ma quando succederà sarò già pronto.”