Eravamo LGI: Demetrio Steffè

Presente per 4 anni di fila sull’almanacco durante il vivaio all’Inter, oggi gioca al Potenza in Serie C e ha da poco festeggiato la laurea
25.02.2023 12:00 di  Luca Pellegrini   vedi letture
Le due carriere di Steffè
Le due carriere di Steffè

“La carriera calcistica, alla fine, è un po’ come il percorso di studi: per arrivare in alto ci vogliono testa e forza di volontà”. Parole di Demetrio Steffè, un ragazzo che – insieme all’abilità con il pallone tra i piedi – queste doti le ha sempre avute. Erano evidenti già nel 2012, quando venne inserito nell’almanacco de La Giovane Italia al termine della sua prima stagione nel settore giovanile dell’Inter, e con il passare degli anni non sono sparite. Anzi. Oggi Demetrio gioca in Serie C nel Potenza e ha alle spalle più di 250 presenze nei professionisti. Parallelamente non ha mai smesso di studiare e pochi giorni fa è diventato Dottore in Scienze della Comunicazione. A 11 anni dalla sua prima (ma non ultima) presenza sul nostro libro abbiamo deciso di intervistarlo e ne abbiamo approfittato per fare un bilancio del suo cammino fino ad ora. In campo, ma non solo. 

Ciao Demetrio. Innanzitutto complimenti per il recente traguardo. Prima di parlare del tuo percorso calcistico e accademico, però, volevo iniziare con una domanda legata allo sport in generale. Sei cresciuto in una famiglia di atleti: tua madre è stata campionessa italiana di basket, tuo padre un giocatore di rugby che ha vestito anche la maglia azzurra a livello giovanile, tuo nonno un campione di nuoto e il tuo bisnonno un calciatore professionista. Considerando che negli ultimi anni sta aumentando il numero di ragazzi che non praticano sport (o che lo abbandonano molto presto), ci racconti cos’ha significato e cosa significa tuttora per te?

“L’importanza dello sport non si può spiegare. Ti fa crescere, ti permette di conoscere persone che non fanno parte della tua normale cerchia di amici e che in alcuni casi non sono nemmeno della tua città o della tua nazione, ti regala esperienze incredibili sia sul terreno di gioco che fuori, a livello di vita personale. Io sono andato via di casa a 14 anni e ora sono a più di 1000 chilometri di distanza dalla mia città: lo sport – ovviamente mi riferisco a quello di squadra, che io e i miei parenti (ad eccezione di mio nonno) abbiamo sempre praticato – è stato ciò che mi ha reso la persona che sono e che mi ha consentito di crescere pur non avendo al mio fianco, nel quotidiano, la famiglia. Se e quando avrò un figlio, sicuramente una delle prime cose che farò sarà fargli fare sport”.

Tra tutte le discipline che avevi nel DNA e che vivevi indirettamente, guardando i tuoi genitori o ascoltando i racconti dei tuoi nonni, come mai hai scelto il calcio? 

“Ti racconto l’episodio da cui è partito tutto. La prima attività sportiva che ho fatto, pur essendo molto piccolo, è stata un qualcosa di assimilabile al minibasket. Avevo più o meno 4 anni. Naturalmente a quell’età non era stata una mia decisione: aveva scelto mia madre. Si trattava semplicemente di un modo per cominciare a farmi praticare uno sport. Di alternative, tra l’altro, non è che ce ne fossero molte, anche perché la squadra di calcio del mio quartiere iniziava a prendere i bambini dai 6 anni in avanti. Cominciai così l’attività a cui ero stato iscritto. Il fatto che ci fosse un pallone mi piaceva: era quello il mio giocattolo preferito. Il problema è che lo colpivo quasi solo con i piedi. Una mattina, mentre ero in bagno con mia madre e mi stavo preparando per andare a scuola, dissi: «Basta, sono stufo. Io voglio fare calcio». Te lo giuro, testuali parole. Era una passione cresciuta spontaneamente in me, non c’è stato nessuno che mi avesse influenzato. È vero, il mio bisnonno era stato un calciatore, ma non posso dire di averlo conosciuto veramente. Ero troppo piccolo. Diciamo che è stato lui ad aver conosciuto me. Mia madre comunque mi guardò un po’ stranita per quella frase e per quella convinzione e mi rispose: «Va bene. Fai pure lo sport che preferisci». Così, appena ho compiuto 6 anni, mi ha iscritto a calcio nel San Giovanni”.

Il San Giovanni era la società a 100 metri da casa tua. Appena sei arrivato, il mister ha capito subito le tue potenzialità da centrocampista, ma per arricchire il tuo bagaglio e farti migliorare a livello tecnico ti ha messo in difesa con compiti di impostazione. Come hai preso la decisione?

“Da bambino la passione era talmente tanta che non mi importava il ruolo: l’importante era giocare. Non che adesso le cose siano molto diverse, eh [ride]. Comunque io ho sempre amato fare il centrocampista e tuttora lo reputo il ruolo più bello in assoluto. Ancora oggi, però, soprattutto nelle partitelle in allenamento, non mi dispiace arretrare e fare il difensore. Mi aiuta a guardare il gioco da un’altra prospettiva e, soprattutto, è più rilassante. Perché stare in mezzo al campo è bello, ma ti arrivano avversari da tutte le parti; quando stai dietro, invece, sai che alle spalle c’è solo il tuo portiere. Poi comunque interpreto il ruolo con le mie caratteristiche, per cui mi godo i vantaggi della posizione facendo giocate da centrocampista. Da ragazzino facevo un po’ la stessa cosa. Quando mi mettevano in difesa cercavo di prendere gli aspetti positivi della situazione e di aggiungerci le mie peculiarità: cercavo spesso l’anticipo, impostavo la manovra, salivo palla al piede appena recuperavo il possesso (tant’è che spesso dovevano richiamarmi)… Insomma, mi divertivo. Anche perché all’epoca riuscivo a fare avanti e indietro, ora non ce la farei [ride]”.

Poi passi nelle giovanili della squadra più importante della tua città: la Triestina.

“Esatto. All’epoca, tra l’altro, la Triestina era in Serie B, quindi mi ritrovai a disputare campionati di livello nazionale. Giocai per due anni di fila i Giovanissimi: il primo con i ’94 (quindi 2 anni sotto età) e il secondo con i ’95 (un anno sotto età), nel quale mi diedero anche la fascia da capitano. Nella seconda stagione, il 2009/2010, andammo in trasferta a Padova e sugli spalti c’erano anche gli osservatori dell’Inter, che erano lì per vedere uno dei nostri avversari: Donkor. In quella gara mi notarono e cominciarono a seguirmi. Nei mesi successivi diversi altri club si interessarono a me, ma a fine anno scelsi comunque i nerazzurri. Non fu una questione di tifo (anche perché non ero interista): ero semplicemente convinto che l’Inter in quel momento fosse il top. Da anni vinceva il campionato italiano, aveva appena conquistato il Triplete e lavorava benissimo a livello giovanile. Trasferirmi lì, in quel momento, significava andare nel club migliore d’Europa. E questo fu uno degli aspetti che tranquillizzò i miei. Sai, lasciar andare lontano da casa il proprio figlio unico, a 14 anni appena compiuti, non è facile… Se però ti rendi conto che sta andando nella società che rappresenta il meglio a livello italiano ed europeo, sei un po’ più sereno”.

Mi racconti com’è stato l’ambientamento sia a livello di calcio giocato (anche alla luce del fatto che arrivavi già da due anni di Giovanissimi) che di extra campo?

“In campo non ho sentito molto il passaggio all’Inter per due motivi. Il primo è un po’ quello che hai accennato tu: avevo alle spalle già due anni di esperienza in quella categoria, per di più giocati entrambi da sotto età; avevo affrontato squadre forti e avevo giocato insieme a ragazzi che poi sono andati in club importanti. Il secondo motivo è che quando vai in una grande squadra, non si alza solo il livello degli avversari, ma anche quello dei tuoi compagni; all’Inter eravamo tutti forti, per cui non fu difficile inserirsi in quel contesto e riuscire ad esprimersi al meglio. Per queste ragioni non ci fu bisogno di un periodo di “rodaggio”: ero pronto per fare il campionato Giovanissimi con i miei pari età. Tant’è che al primo anno realizzai 9 gol da centrocampista. La cosa che davvero mi stupì fu la mentalità: quella sì che era radicalmente diversa. Per quanto riguarda invece l’ambientamento in città, all’inizio non fu facile: mi trovavo lontano da famiglia e amici e, in più, la location non era particolarmente felice. All’epoca, infatti, il convitto dell’Inter era attaccato al carcere di San Vittore. Per carità, da un lato era comodo perché ero in una zona centrale di Milano e in pochi minuti potevo arrivare in Duomo; dall’altro lato, però, immagina un ragazzo di 14 anni, a 400 chilometri da casa, che vive da solo e che quando apre le finestre vede il carcere. Nel giro di qualche settimana, comunque, feci amicizia con i ragazzi che erano lì con me (che erano davvero tanti e che venivano da tutta Italia) e riuscimmo a creare un gruppo eccezionale. L’anno dopo, tra l’altro, ci spostarono in una villa incredibile a Cormano, quindi si risolse anche il problema della location [ride]”.

Immagino la reazione dei tuoi genitori quando hanno scoperto del carcere… Hanno provato a riportarti indietro?

“No, sapevano che quello era il mio sogno e hanno fatto di tutto per starmi vicini. Così com’è stato difficile per me, comunque, credo lo sia stato anche per loro. Le difficoltà però fanno crescere. Lasciare la mia città molto presto, ritrovarmi a vivere da solo, stringere legami con ragazzi di diversa provenienza… Sono state tutte cose che mi hanno insegnato tanto e mi hanno reso la persona che sono. A differenza dei miei amici non ho avuto i genitori sempre al mio fianco (perché un po’ per la distanza, un po’ per il costo del viaggio, un po’ per il loro lavoro, potevano venirmi a trovare solo una o due volte al mese), ma in compenso credo di avere una mentalità diversa. E poi non hai idea del valore che acquistano i momenti in cui sono con mia madre e mio padre. Sai, ci sono tanti miei coetanei che vivono ancora a casa dei genitori e non ne possono più di averli intorno; io invece vado a trovarli appena ne ho l’occasione perché non vedo l’ora di vederli e di passare del tempo con loro”.

Nel 2011/12, la tua seconda stagione all’Inter, torni alle vecchie abitudini: giochi infatti tutto l’anno da sotto età. Le tue prestazioni attirano l’attenzione dello staff de La Giovane Italia e vieni inserito per la prima volta sull’almanacco. Ti ricordi il giorno in cui te l’hanno detto? Emozioni?

“È stata una delle prime soddisfazioni della carriera… Un’emozione che porterò per sempre con me. Ovviamente conservo ancora tutti i libri in camera mia e guai a chi me li tocca [ride]. I vari almanacchi sono andati a sommarsi ai libri che negli anni ha creato mia madre. Devi sapere infatti che fin da quando sono ragazzino, mia madre ha realizzato dei piccoli album di ricordi per ogni singola stagione, usando ritagli di articoli di giornale in cui si parlava di me, fotografie, tabellini… Insomma, quando mi ritirerò, ne avrò di materiale da rileggere e riguardare”.

Ad accorgersi di te non è solamente La Giovane Italia, ma anche la Nazionale, che nel settembre 2012 ti convoca per la doppia amichevole contro la Svizzera. Giochi entrambe le partite e, in particolare, nella seconda sfida hai la fascia da capitano al braccio. Ci racconti quell’esordio?

“La prima volta che indossi la maglia azzurra e canti l’inno schierato a centrocampo fa venire i brividi. Sugli spalti c’erano anche i miei genitori, che erano venuti fino in Svizzera per vedermi… Una giornata indimenticabile. Non riesco nemmeno a spiegarti quello che ho provato. Potrei usare qualsiasi aggettivo, ma non renderebbe comunque l’idea”.

Nei mesi successivi, parteciperai alla cavalcata europea e mondiale con l’Italia. Nella prima arriverete fino in fondo, ma perderete l’ultimo atto ai rigori contro la Russia; nella seconda uscirete agli ottavi di finale contro il Messico. Possiamo dire che sono state da un lato le avventure più emozionanti della tua vita, ma dall’altro anche le più amare visto l’epilogo? 

“Il Mondiale non è stato amaro, anzi. Ormai ho 26 anni e a meno che io non faccia 10 gol all’anno per 2 o 3 stagioni di fila, non credo che riuscirò mai a giocare il Mondiale “vero” con la Nazionale maggiore. Nella mia carriera, però, un Mondiale posso dire di averlo giocato: quello Under 17. Non sarà come quello dei grandi, ma si chiamava comunque “Fifa World Cup” ed è stata un’emozione fortissima. È stato incredibile proprio tutto il contesto, non solamente il campo: stare un mese in ritiro con i tuoi compagni, visitare gli Emirati Arabi, giocare in stadi incredibili… E poi a livello di risultati non ci possiamo recriminare molto: siamo usciti agli ottavi contro il Messico che poi è arrivato in finale. L’Europeo invece è stato davvero un peccato. Arrivi in finale, crei un paio di occasioni senza sfruttarle, vai ai rigori (perché non c’erano i supplementari), passi in svantaggio di 2, rimonti grazie a due parate consecutive di Scuffet, vai ad oltranza e perdi… È stato pesante”.

Nel 2013/14 vai in prestito al Chievo. Sembrerebbe un passo indietro per la tua carriera, ma si rivela la scelta migliore possibile. A livello individuale, infatti, il trasferimento ai gialloblù ti consente di giocare da titolare e di conservare la maglia dell’Italia. A livello di squadra disputate una stagione strepitosa e vincete addirittura il campionato Primavera. Te l’aspettavi?

“Ti racconto come andarono le cose. Quell’anno era il mio primo in Under 19 e all’Inter la concorrenza era davvero folta. Nel mio ruolo c’erano già Olsen e Acampora (due fuoriquota che si allenavano in prima squadra e che scendevano in Primavera solo per giocare) e in estate arrivò Tassi dal Brescia. Io sapevo che la società puntava su di me per il futuro, ma la probabilità che spendessi i primi mesi di stagione in panchina era alta. Mi confrontai con Daniele Zoratto, il CT della Nazionale Under 17, e lui mi disse che avrebbe fatto fatica a portarmi ai Mondiali – che quell’anno si sarebbero giocati ad ottobre – se io nel frattempo non avessi accumulato almeno una manciata di partite da titolare nella mia squadra di club. Già il fatto che la manifestazione si disputasse negli Emirati Arabi rendeva la preparazione difficile, perché significava passare dai 15 gradi italiani ai 30 di Dubai; se in più fossi arrivato ai Mondiali con zero gare dal primo minuto nelle gambe, non sarei mai stato in grado di giocare (nonostante comunque fossi uno dei punti fermi dell’Italia Under 17). L’Inter avrebbe preferito tenermi, ma capì le mie motivazioni. A quel punto mi trovai di fronte ad un bivio: Torino o Chievo. Scelsi i gialloblù per 3 ragioni: si trattava di una società virtuosa e organizzata, erano più vicini a casa e avevano un allenatore di cui si parlava un gran bene: Paolo Nicolato [attualmente CT dell’Italia Under 21]. Come hai anticipato tu, la decisione si rivelò giusta perché giocai titolare e riuscii ad ottenere la convocazione per il Mondiale. Mai mi sarei aspettato di arrivare fino in fondo in campionato e vincere lo Scudetto. E indovina chi battemmo in finale? Il Torino!”.

A posteriori, dopo quella stagione, c’è qualche scelta che non rifaresti?

“Eh un po’ di rammarico ce l’ho. Si interessarono a me diverse squadre di Serie B e di alta Serie C e io volevo provare il salto tra i grandi. L’Inter, però, volle assolutamente tenermi e mi mandò addirittura a fare il ritiro estivo con la prima squadra, che all’epoca era allenata da Mazzarri. Il mister aveva grande stima di me, tant’è che voleva che io rimanessi aggregato ai grandi, e io speravo che prima o poi sarebbe arrivato il momento dell’esordio, ma non debuttai mai. Con la Primavera vincemmo il Viareggio, per cui fu comunque un’annata positiva, però guardandomi indietro come faccio a non avere qualche rimpianto? Chi lo sa cosa sarebbe successo se fossi passato subito al calcio professionistico invece di fare un altro anno di Under 19…”.

L’anno del successo nel Torneo di Viareggio sei stato allenato da Stefano Vecchi, che sull’almanacco parò così di te: «Ragazzo serio, affidabile e dotato di una grande cultura del lavoro. Non ci sta a perdere in nulla, nemmeno nelle esercitazioni». Ti ritrovi in queste parole?

“[Ride] Con mister Vecchi ho sempre avuto un rapporto splendido. Ancora adesso ci sentiamo e ogni volta ci auguriamo di tornare a lavorare insieme. Per quanto riguarda le sue parole, è vero: sono fatto così. Ho uno spirito competitivo abbastanza forte. Mi dà fastidio perdere in ogni situazione”.

Dall’Inter sei passato al Savona e hai vissuto la tua prima avventura tra i professionisti. Com’è stato l’impatto con il calcio dei grandi?

“Beh, l’impatto direi che non è stato male: alla prima gara della stagione sono partito titolare e ho segnato. Era difficile sperare in qualcosa di meglio. Ho continuato a giocare tanto fino a gennaio, poi le cose sono un po’ cambiate e ho avuto sempre meno spazio. A livello di squadra le cose non sono andate bene perché abbiamo preso tanti punti di penalità (come conseguenza dell’indagine sul calcio scommesse legata alla partita contro il Teramo dell’anno precedente) e siamo retrocessi, ma a livello individuale è stata una stagione tutto sommato positiva”.

La stagione in Liguria coincide anche con la tua ultima presenza sull’almanacco: nel corso delle varie edizioni c’è qualcosa che ti fece particolarmente piacere leggere?

“Faccio fatica a scegliere qualcosa di specifico. Mi ricordo che il semplice fatto che qualcuno venisse al centro di allenamento dell’Inter, si interessasse alla mia carriera, mi facesse domande sulla mia vita e il mio percorso era già speciale. Vedermi poi su un libro, leggere le parole dei miei allenatori e i paragoni che facevate… Sono ricordi che mi resteranno per sempre. E aggiungo un’altra cosa. Prima mi hai chiesto: «Che emozione hai provato la prima volta che sei stato inserito sull’almanacco?». Ovviamente fu bellissimo, ma le volte successive lo furono ancora di più. Perché nella vita la cosa più difficile è sempre riconfermarsi”.

Dopo l’anno a Savona vivi le esperienze con Teramo, Siena e Trapani. Poi, nel 2018/19, fai ritorno dove tutto era cominciato: Trieste. Cos’ha significato per te vestire la maglia della prima squadra della città dove sei nato? Nonostante avessi solamente 22 anni si può dire che è stato un po’ il coronamento dell’impegno e dei sacrifici fatti nel corso della tua carriera?

“Il vero coronamento sarebbe stato centrare la promozione in Serie B. La sconfitta ai supplementari nella finale contro il Pisa è stata veramente una batosta a livello mentale ed emotivo. È davvero una cicatrice che non se ne andrà mai via. Se valuto l’esperienza alla Triestina senza considerare quella sconfitta, allora non posso fare altro che sentirmi onorato. Aver vestito quella maglia è stata un’emozione unica. Ciò non significa che sia stato facile, eh. Perché se giochi nella squadra della tua città sei visto un po’ come il punto di riferimento sia in positivo che in negativo: quando le cose vanno bene sei considerato come un re, quando le cose vanno male sei il capro espiatorio. Da un lato sei protetto, dall’altro tutti pretendono molto. E io avevo solo 22 anni. Però fu comunque una stagione pazzesca: più di 40 presenze, 4 gol… Incredibile. Il problema è che la mazzata del 9 giugno non si cancella: la porterò sempre con me. Anche perché alla delusione sportiva si aggiunge il fatto che Trieste era ed è casa mia. Io non ero solamente un giocatore: ero un ragazzo cresciuto lì; i miei genitori vivevano lì; tutti i miei amici erano tifosi della squadra. È stato devastante per tutti”.

A Trieste sei rimasto un altro anno, poi ti sei trasferito a Cesena e da settembre sei a Potenza. Cosa ti ha spinto ad accettare una proposta a 1000 chilometri da casa?

“Qui c’è un progetto serio. È arrivato un presidente molto ambizioso, che vuole fare le cose per bene. Non è la classica persona che per farsi vedere decide di spendere e spandere senza una logica, acquistando grandi nomi o buttando i soldi. Per prima cosa ha deciso di puntare sulle strutture, rendendo il Potenza un punto di riferimento non solo a livello regionale, ma per tutta la Serie C. Non so quanti club della nostra categoria possano contare su uno stadio dotato di mensa (con una cucina di alto livello), su un’area relax, su una palestra nuova con macchinari di ultima generazione… Insomma, investimenti oculati. Prima di venire ho parlato anche con Caturano, che era stato mio compagno a Cesena, e mi ha confermato tutto quello che di buono si diceva della società. L’unica cosa che mi fece tentennare è la grande distanza da casa, ma appena sono arrivato qui ho conosciuto un gruppo di giocatori davvero eccezionale dal punto di vista umano, che mi ha fatto dimenticare anche i chilometri che mi separano da Trieste. In particolare ho legato tanto con alcuni ragazzi campani e ogni volta che abbiamo un giorno libero mi portano a Napoli con loro. A livello di ambientamento, insomma, sta andando tutto benissimo. A livello di campo si spera sempre in qualche punto in più, ma non ci possiamo lamentare”.

A proposito di calcio giocato e di punti in classifica: Tra fine ottobre e metà gennaio avete raccolto una sola sconfitta in 12 partite, arrivando fino in zona playoff. Ora siete a 2 punti dai playoff e a 3 dai playout. Quali sono i vostri obiettivi?

“Il nostro sogno è quello di fare i playoff. Sappiamo benissimo, però, che per arrivarci dobbiamo prima mettere in cassaforte la salvezza, allontanandoci dalle zone calde. Questa dev’essere la nostra mentalità fino alla fine. È giusto sognare, ma in campo dobbiamo mettere la determinazione e la voglia di una squadra che come primo obiettivo ha la permanenza in Serie C. Prima ci salviamo, prima possiamo allargare i nostri orizzonti e pensare a qualcosa di più”.

In attesa di raggiungere la salvezza, un traguardo importante l’hai raggiunto: ti sei laureato. Giorgio Gatti (il tuo mister negli Allievi dell’Inter), nel 2012, attraverso le pagine del nostro almanacco, disse di te: «Va molto bene a scuola e non a caso in campo mostra predisposizione all’impegno e all’apprendimento». Visto il tuo percorso accademico è evidente che non si sbagliava, ma la domanda che ti pongo è un’altra: quanto ti ha aiutato lo studio nella vita sia fuori dal campo che come calciatore? E come mai hai scelto la facoltà di Scienze della Comunicazione?

“Io credo che le due cose debbano andare di pari passo. Come recita il famoso detto latino: “Mens sana in corpore sano”. Essere curiosi, avere voglia di imparare cose nuove, cercare di sviluppare una mentalità aperta… Sono tutte caratteristiche che vengono stimolate durante un qualsiasi percorso di studi e che poi ti ritrovi anche nella carriera da sportivo. Io credo che ogni calciatore porti sul terreno di gioco se stesso, per cui la persona che sei fuori dal campo sei anche dentro. E il discorso secondo me si può estendere a qualsiasi aspetto del carattere. Io ad esempio sono uno a cui piace l’ordine e mi porto questa caratteristica quando gioco, quando studio e anche a casa. C’è poi chi è più stravagante e lo dimostra sia sul campo che nella vita. Per quanto riguarda la scelta della Facoltà, so che la maggior parte dei calciatori sceglie un qualcosa legato allo sport perché è più affine alla propria carriera, ma io volevo qualcosa che mi interessasse davvero, per cui mi sentissi predisposto e che mi lasciasse aperti più sbocchi in futuro”.

Vista la tua carriera da calciatore professionista e la tua laurea in Scienze della Comunicazione, come chiusura di questa intervista ti chiedo di lanciare un messaggio. Se ti dovessi rivolgere ai giovani che – ahimè sempre più spesso – decidono di smettere di fare sport oppure a coloro che, al contrario, sacrificano la scuola alla propria carriera da atleti, cosa diresti?

“Tutti attraversano dei momenti di difficoltà. Anch’io ne ho vissuti tanti. L’ultimo proprio questa estate: dopo 2 anni a Cesena in cui ho raccolto più di 80 presenze ed ero apprezzato da tutti, sono arrivati un mister e un direttore sportivo nuovi e hanno portato con sé i propri giocatori di fiducia. Io all’improvviso sono diventato di troppo. Non mi volevano più. Ovviamente ci sono rimasto male, ma ho cercato di voltare pagina il più in fretta possibile e di rimettermi in gioco. Questo è il messaggio che voglio dare: se avete un obiettivo, non mollate appena incontrate delle difficoltà. E poi siate disposti a fare dei sacrifici. Io sono un calciatore e ho alle spalle centinaia di presenze tra i professionisti, ma sono lontano da casa da quando ho 14 anni. Per non parlare poi della laurea. Quando torni a casa dagli allenamenti o dalle partite non è sempre facile trovare la concentrazione e gli stimoli per mettersi sui libri. Sia nel calcio che nello studio, però, avevo degli obiettivi e non ho mollato. Questo è il consiglio che mi sento di dare. Per ottenere grandi soddisfazioni spesso bisogna superare grandi difficoltà. E la cosa più sbagliata che si possa fare è demordere”.

Come si fa con i professori alla fine del corso, a noi non resta che alzarci in piedi e ringraziare il Dottor Steffè.