Eravamo LGI: Alessandro Mastalli

Presente in 5 edizioni dell’almanacco, il centrocampista cresciuto nel Milan oggi veste nuovamente i colori rossoneri: quelli della Lucchese
01.10.2022 12:00 di Luca Pellegrini   vedi letture
Mastalli con Milan e Lucchese
Mastalli con Milan e Lucchese

Quando ci si trova a dover raccontare la storia di un calciatore, spesso la difficoltà è l’inizio. C’è bisogno di un episodio che colpisca o di una chiave di lettura particolare, per fare in modo che la vicenda sia (o perlomeno sembri) unica. E normalmente, trovare un punto di vista insolito o un aneddoto significativo è complicato. Molto complicato. Alessandro Mastalli, però, rappresenta un caso più unico che raro. Per raccontare la sua carriera, infatti, si va incontro al problema opposto: la difficoltà non è più la ricerca, ma la scelta. Si potrebbe partire dal pomeriggio di gioco spensierato con i bambini del Castelfranco che – ad insaputa di Alessandro – si è trasformato in un provino oppure dai complimenti del papà-allenatore che gli arrivavano per via indiretta dalla madre; si potrebbe sottolineare come la maglia a strisce verticali rosse e nere sia nel suo destino o come sia sempre riuscito a lasciare il segno in tutti i suoi esordi; si potrebbe parlare dell’eurogol che ha appena realizzato o della prima dedica speciale che ne è seguita. Perché la storia del centrocampista della Lucchese, inserito nelle prime cinque edizioni dell’almanacco, è tutto questo. E anche di più…

Ciao Alessandro. Come ogni storia che si rispetti, direi di partire dall’inizio. Hai cominciato a tirare i primi calci al pallone nel Mezzolara, la cui prima squadra era allenata da tuo padre, ex giocatore. È stato lui ad influenzarti e a spingerti verso il mondo del calcio o ti ha lasciato libero di scegliere e hai fatto tutto spontaneamente?

“È stato tutto naturale. Non mi sono mai sentito obbligato a giocare a calcio. La mia passione è nata da sola fin dai 3 anni. Il pallone mi piaceva proprio, lo tenevo sempre tra piedi. Poi sicuramente il passato di mio padre e il fatto che avesse smesso da poco mi hanno dato una spinta in più, ma non sono stati gli aspetti decisivi. Ero io che avevo proprio voglia di giocare”.

Insomma, sei uno di quei bambini che ha imparato prima a calciare e poi a camminare.

“Esatto. Che poi è come sta crescendo mio figlio [ride]”.

È una domanda che ti avrei fatto più avanti, ma colgo la palla al balzo. La famiglia da poco si è allargata. Cos’è cambiato per te con l’arrivo di tuo figlio? Ti senti più responsabilizzato? Hai ancora più motivazioni?

“Beh, è cambiata tutta la mia vita, sotto ogni punto di vista. Per quanto riguarda il calcio, posso dire che è cambiato il modo in cui supero le delusioni. Prima se perdevo o se giocavo male tornavo a casa e avevo il muso anche con mia moglie. Mi passava solo dopo due o tre giorni. Oggi no. Ovviamente quando rientro negli spogliatoi sono arrabbiato, ma poi mi basta sentire o vedere mio figlio e mia moglie e mi torna subito il sorriso. Ti racconto cosa mi è successo sabato, perché non mi era mai capitata una cosa del genere. Ero in campo che facevo il riscaldamento prepartita e ho visto mia moglie e mio figlio sugli spalti. Devi sapere che a Lucca viviamo insieme da pochissimo, perché abbiamo appena trovato casa. Per cui era la prima volta che venivano a vedermi da quando abbiamo cominciato a convivere qui. All’improvviso mi sono emozionato tantissimo, ero quasi commosso. Non so perché. Appena li ho visti prendere posto in tribuna mi sono venute le lacrime agli occhi per la gioia. Poi c’è stata la ciliegina sulla torta di quel gol bellissimo e appena la palla è entrata in rete ho pensato solo a correre verso mia moglie e mio figlio. È una cosa difficile da spiegare”.

Riprendiamo il percorso della tua carriera. Dopo il Mezzolara è arrivato il Castelfranco. È vero che tua madre ti portò a giocare con i bambini della squadra solo per farti passare il tempo e dopo averti visto all’opera il mister pretese che ti riportasse?

“Sì, è proprio vero. Mia madre mi lasciò lì solo un’oretta, ma in quel lasso di tempo il mister rimase impressionato. Addirittura mi prese come esempio per far vedere agli altri come si calciava. Il punto è che io avevo solo 5 anni [ride]. Quando mia madre tornò a prendermi, l’allenatore le disse che da quel momento in avanti mi avrebbe dovuto portare sempre e lei rimase a bocca aperta. Provò a dire qualcosa del tipo: «Ma come? Io l’avevo portato qui solo per giocare un po’». Ma ormai era deciso”.

Dal Castelfranco il passaggio alle giovanili del Bologna, dove ti ritrovi ad avere tuo papà come allenatore. Che sensazione e che situazione fu?

“È stato bello e allo stesso tempo un po’ particolare, perché cambia completamente il modo in cui vedi la figura paterna. Io però fin da piccolo, quando entravo in campo, mi comportavo come un professionista. Mi veniva naturale. Per cui il fatto che l’allenatore fosse mio padre non cambiava: durante gli allenamenti e le partite lo chiamavo “mister” e gli davo del “lei”. In macchina e a casa tornava ad essere mio padre, ma in campo e negli spogliatoi no”.

Ma fuori dal campo continuavate a parlare di calcio oppure riuscivate a staccare?

“Se l’allenamento o la partita erano andati bene magari ne parlavamo un po’, però solo in macchina. A casa io tendevo a non parlarne più. A volte però succedeva una cosa simpatica: mio padre si confidava con mia madre e le diceva: «Ma sai che secondo me Alessandro è proprio forte? Me ne sto rendendo conto allenandolo». E poi mia madre veniva a dirmelo di nascosto. Questo mi rendeva molto fiero”.

Nel 2010/11, la stagione in cui vieni inserito per la prima volta nell’almanacco, passi alle giovanili del Milan. Ti chiedo prima di tutto che ricordi hai di quando uscì il libro e le sensazioni che avevi provato vedendoti sulle pagine e poi come hai vissuto quel periodo, perché trasferirsi in un’altra città, da soli, a 14 anni non è una cosa scontata.

“Hai detto bene: non è stato per niente scontato. Ancora oggi se ci ripenso mi emoziono. Trasferirsi da Bologna a Milano, da solo, ad appena 14 anni, vivendo in convitto, non fu facile. In una società come il Milan poi. È stato un passaggio importante sia della mia vita che della mia carriera. Per quanto riguarda l’almanacco, quella è un’altra storia non meno emozionante. Arrivai nell’Under 15 del Milan e mi ritrovai ad indossare la maglia con sopra lo Scudetto perché l’anno prima avevano vinto il campionato. Il primo torneo a cui partecipai fu la “Coppa Gaetano Scirea”, nella partita d’esordio il mister Bertuzzo mi diede subito la fascia di capitano e io feci anche gol. Ma non è finita. Abbiamo vinto il torneo, io venni nominato miglior giocatore e a premiarmi fu Maldini. La stagione cominciò così. Ti rendi conto? Quando iniziò il campionato il mister continuò a darmi fiducia, facendomi giocare tanto e sempre da capitano. Venni quindi inserito nell’almanacco. I miei lo comprarono subito e per me fu impressionante vedermi tra i migliori de La Giovane Italia. Il tutto a 14 anni. Per me era incredibile. Sono emozioni difficili da spiegare e impossibili da dimenticare”.

Dopo l’edizione del 2011 sei stato inserito anche nelle quattro successive. La mia preferita è quella del 2012, dove possiamo leggere almeno tre passaggi interessanti. Il primo è: «Frequenta il liceo linguistico, ma preferirebbe una seduta atletica ad un’ora di tedesco».

“[Ride] È vero. Con il tedesco nel primo anno ho fatto un po’ di fatica, ma poi è andato tutto bene. Ho finito la scuola e anzi, ancora oggi sento alcuni professori. In particolare quella di italiano, che si è affezionata molto a me soprattutto per il mio comportamento e la mia educazione. Questo mi fa piacere e mi rende orgoglioso. A volte mi racconta addirittura che mi cita ad esempio con i suoi alunni di adesso. Il mio percorso di studio comunque non lo considero concluso. Ripeto spesso a mia moglie che vorrei iniziare l’università. Sto solo aspettando il momento giusto. È un obiettivo che mi sono prefissato e che, come si suol dire, “non ha età”, come dimostrano anche tanti calciatori. Mi piacerebbe una laurea che mi consentisse di rimanere nel mondo sportivo, perché quando smetterò vorrei diventare un allenatore o comunque una figura che sta sul terreno di gioco”.

Il secondo passaggio è il “Dicono di lui” di Stefano Nava. «A fine partita è facile contare i passaggi che ha sbagliato perché bastano le dita di una mano e a volte neanche tutte».

“Leggere i complimenti del mister è stato bellissimo. Lui mi martellava su questo aspetto e sulle giocate semplici. Anche quando finivo la partita con solo 4 o 5 passaggi sbagliati, lui mi riprendeva. Per me è stato fondamentale e mi reputo fortunato ad essere stato allenato da lui. La cosa che mi fa sorridere è che il complimento di Nava era lo stesso che mi faceva mio padre: «Nonostante il campo, oggi non hai sbagliato niente». Che poi è quello che mi ripete oggi [ride]”.

Il terzo passaggio da sottolineare è che nelle giovanili tu hai sempre giocato da sotto età. Come hai vissuto questa cosa?

“Devo dire in modo abbastanza tranquillo. Ero un martello: che fossi con i miei coetanei o con i più grandi io lavoravo sempre al massimo e andavo sempre a duemila. L’obiettivo, sia in allenamento che in partita, era quello di andare sempre “in fatica” così da essere pronto quando sarebbe arrivato il momento di passare in quello che chiamavo “il calcio vero”. E poi a dirla tutta giocare sotto età mi metteva meno pressione e mi aiutava ad essere umile, perché mi dicevo: “Io sono il più piccolo di tutti: se do il massimo e mi alleno bene non possono prendersela con me. Se invece inizio a provare le giocate difficili o a montarmi la testa mi massacrano”. Perché alla fine è così: giusto o non giusto, quando sei il più piccolo devi lavorare e basta”.

Al Milan hai fatto tutta la trafila del settore giovanile e sei arrivato ad esordire in prima squadra. Tra i tanti compagni che hai avuto negli anni, due di loro hanno condiviso con te tutto il percorso: Davide Calabria e Davide Di Molfetta. Che rapporto hai con loro?

“Li sento entrambi ancora oggi e se non avessi giocato 6 anni al sud ci saremmo visti più spesso. Ci lega grande affetto e credo sia bellissimo essere riusciti a mantenere questa amicizia nel tempo, perché alla fine si tratta di persone con cui ho condiviso non solo una parte significativa della mia carriera, ma un percorso di vita importante. 5-6 anni nella stessa squadra, soprattutto a quell’età, vuol dire tanto; significa crescere insieme. Abbiamo vissuto tante esperienze, dalle giovanili fino alla prima squadra, dove abbiamo esordito tutti e tre nella stessa stagione ad una settimana di distanza. La condivisione di tanti momenti sportivi è andata di pari passo con il legame di amicizia che si è creato e ci ha avvicinato ancora di più. E se arrivi a 26 anni e continui a sentirti con ognuno di loro significa che si è costruito un rapporto che va oltre il campo. Questa penso sia una delle cose più belle che un ragazzo diventato adulto possa avere. Sicuramente se ci dovessimo rincontrare andremmo fuori a cena e ci parleremmo come se non fosse passato tutto questo tempo e come se ci conoscessimo da sempre”.

Dopo il Milan l’esperienza al Lugano e, soprattutto, quella alla Juve Stabia, dove possiamo dire che hai trovato il tuo habitat.

“Sì, sono stati gli anni più belli nel cosiddetto “calcio vero”. Passare da Milano a Castellamare di Stabia a 19 anni è stato un cambiamento forte, ma mi hanno accolto come solo la gente del sud sa fare: in modo caloroso, affettuoso, come se fossi stato figlio loro. E poi di fatto lo sono diventato, perché la maglia della Juve Stabia si è trasformata in una seconda pelle (o forse una terza, visto che ormai il rossonero mi si era attaccato). Sono state stagioni fantastiche e ho coronato un sogno: vincere un campionato professionistico da capitano e arrivare in Serie B. Dimenticare quella società e quella città, per quello che ho vissuto e che mi hanno dato, è impossibile”.

Hai citato la tua seconda pelle. Questa estate si è chiuso un cerchio: dai rossoneri ai rossoneri. Cosa ti ha spinto verso Lucca e quali sono gli obiettivi (sia personali che di squadra)?

“Il direttore mi voleva a tutti i costi e la sua determinazione mi ha convinto. Vedendo i colori della maglia, poi, ho pensato che potessero solo portarmi bene. Per quanto riguarda gli obiettivi, quello personale è tornare il vero Mastalli, che dopo gli infortuni e la stagione ad Avellino non si è più rivisto. Voglio rilanciarmi e dimostrare che Mastalli c’è ancora. A livello collettivo vogliamo arrivare il più in alto possibile e raggiungere quei traguardi che una città come Lucca merita. Non pensavo fosse così bella e non credevo che la piazza fosse così calorosa, per cui mi è piaciuta da subito. Se riusciremo a fare un campionato di alta classifica mi piacerebbe vedere la curva ovest piena, perché i tifosi sanno farsi sentire, sono vicini al campo e quando sono tanti il colpo d’occhio è fantastico”.

Hai detto che il rossonero ti ha sempre portato bene. Mi sembra però che anche con l’azzurro della Nazionale le cose non siano andate malissimo…

“È stato fantastico. Soprattutto con l’Under 18, con la quale segnai al debutto. Conservo ancora tutti i completini di quegli anni. Vestire la maglia azzurra e rappresentare il tuo paese è un qualcosa di incredibile. Non oso immaginare cosa si provi ad indossare quella della Nazionale maggiore. Chissà, magari un giorno… È una delle cose per cui credo non ci sia età, lo dimostrano tanti giocatori. Dentro di me non posso non sperarci”.

A proposito di sogni, da poco è arrivato in Italia il tuo idolo: Fabregas. L’obiettivo è incontrarlo in campo?

“Sarebbe un sogno non solo allenarci o giocarci insieme, ma anche semplicemente affrontarlo da avversario. Diciamo che arrivare in Serie B e condividere il campo con il mio idolo di sempre non sarebbe male. Magari riuscendo a scambiare la maglia a fine partita… Darei tutto per farlo”.

L’università, la curva ovest piena, la Nazionale, la maglia di Fabregas. Se scegliere come iniziare la storia era difficile, decidere come concluderla lo è di più. Fortunatamente, visti i 26 anni di Alessandro Mastalli, per il momento possiamo aspettare a mettere la parola fine.