Eravamo LGI: Andrea Zaccagno

Le giovanili nel Padova e nel Torino, la Nazionale e 5 “presenze” sull’almanacco: l’attuale portiere del Rimini si racconta ai nostri microfoni
22.10.2022 12:00 di  Luca Pellegrini   vedi letture
Andrea Zaccagno in Nazionale
Andrea Zaccagno in Nazionale

Ha iniziato a giocare nella squadra del suo paese e quando c’è stata la possibilità di passare al Padova suo padre l’ha dovuto convincere ad accettare, perché – fosse stato per lui – sarebbe rimasto a Casalserugo con i suoi amici. Con i veneti ha vinto praticamente tutti i campionati giovanili a livello regionale e, arrivato ad un passo dalla Primavera, ha preso in seria considerazione l’idea di andare a fare un provino con i Saints, la squadra di football americano della città. Anche quella volta, però, ha ascoltato il consiglio di suo padre di continuare la carriera calcistica. Con la Nazionale ha fatto parte di tutte le selezioni giovanili fino all’Under 20, con la quale ha partecipato al Mondiale in un doppio ruolo: giocatore e inviato de La Giovane Italia, per la quale realizzava una sorta di diario di bordo insieme a Pessina, raccontando la quotidianità del ritiro degli azzurri. Un ragazzo che, proprio come il ruolo che riveste in campo, negli anni ha saputo distinguersi da tutti gli altri. Per storia, carattere, sincerità e disponibilità. In poche parole: Andrea Zaccagno, l’attuale portiere del Rimini.

Ciao Andrea. Innanzitutto complimenti per l’ultima partita: pareggio a Siena con porta inviolata.

“Grazie mille. Ovviamente sono contento per il clean sheet perché lo scopo di un portiere è sempre lo stesso: cercare di prendere meno gol possibili. Quando si riesce a mantenere la porta inviolata è una soddisfazione sia per la squadra di cui si difendono i pali, sia personale, perché significa che il lavoro quotidiano sta pagando. Poi bisogna ammetterlo: subire o meno una rete può essere anche una questione di fortuna, per cui finire una gara senza aver preso gol significa che si sono sommate sia la bravura che la buona sorte. Non è un connubio facile, perciò quando succede sono felice”.

Ora riavvolgiamo il nastro e facciamo un salto indietro dove tutto è cominciato. Hai mosso i tuoi primi passi su un campo da calcio nel Casalserugo, la squadra del tuo paese, e poi sei andato al Padova. Il passaggio alla squadra più importante della tua zona però non è stato facile: ci sono voluti diversi tornei e provini. È vero?

“Sì, ma non perché la società fosse titubante nel prendermi: in realtà ero io ad essere poco convinto. Ti spiego. Quando ero al Casalserugo giocavo con i miei amici e l’ambizione di tutti era ovviamente quella di poter giocare nel Padova. Il Padova, all’epoca, aveva due squadre: la scuola calcio, dove qualunque genitore poteva iscrivere il proprio figlio, e quella dei cosiddetti “scelti”, cioè una sorta di formazione d’élite (passami il termine) costituita dai ragazzi che venivano selezionati dalle varie società della provincia. Io ricevetti una lettera a casa in cui il Padova mi invitava a partecipare ad un provino perché mi aveva notato tra le fila del Casalserugo, ma non è che avessi chissà quale ambizione. Sai, quando hai 7-8 anni, non è che pensi a fare il calciatore. Almeno, per me era così. Io giocavo solo perché mi divertivo e stavo con i miei amici. A quel tempo vedevo il Padova come un mondo nuovo, diverso, in cui c’era più competizione e meno certezza sul futuro, perché un anno vieni chiamato e l’anno dopo possono lasciarti a casa, per cui ero un po’ spaventato. Mio padre invece insistette, mi convinse e mi fece partecipare a due o tre tornei. Alla fine devo dire che ebbe ragione lui e per fortuna lo ascoltai. Insomma, se sono andato al Padova – dove poi è iniziata di fatto la mia carriera – credo che il merito sia più di mio padre che mio. Fosse stato per me sarei rimasto a giocare con gli amici al Casalserugo. Poi, naturalmente, una volta entrato in quel mondo l’appetito vien mangiando, per cui ho cercato di arrivare sempre più in alto”.

Decidi quindi di accettare la corte del Padova e inizi il percorso nel loro vivaio. Quando arrivi nei Giovanissimi dai un contributo fondamentale affinché la tua squadra finisca la stagione con la miglior difesa e, nella stessa stagione, ricevi la prima convocazione dalla Nazionale Under 15. Le tue prestazioni non potevano passare inosservate a La Giovane Italia che decide di inserirti in almanacco. Ci racconti quell’annata e la sensazione che hai provato quando ti sei ritrovato su un libro dedicato ai migliori talenti italiani?

“Quella stagione [2011/12] è stata veramente un insieme di emozioni. Con l’Italia, prima ancora delle amichevoli, partecipai ad uno stage a Brescia nel quale ebbi la fortuna di allenarmi con Toldo, che all’epoca faceva il preparatore dei portieri. Al Padova sapevo che le cose stavano andando bene sia a livello individuale che collettivo, sentivo la fiducia della società ed ero consapevole di avere la stima degli allenatori, ma non mi sarei mai aspettato di ricevere la convocazione dalla Nazionale. Per me fu il coronamento migliore possibile del lavoro quotidiano fatto con il club. Allo stage feci bene, Toldo si complimentò e da lì in poi venni richiamato. Per quanto riguarda l’almanacco, oltre alla soddisfazione di esserci (perché comunque raccoglie i migliori giovani italiani), mi ricordo che mi diede ulteriore stimolo per allenarmi al massimo e migliorare ancora, così da dimostrare di meritarmelo”.

Nelle 5 edizioni dell’almanacco su cui sei stato inserito, c’è qualcosa che ti fece particolarmente piacere leggere?

“Mi ricordo che quando giocavo nella Primavera del Torino parlò di me l’allenatore dei portieri Ferraris e le sue parole mi riempirono di orgoglio. In generale, comunque, la parte che preferivo ogni anno era il “Dicono di lui”, perché si trattava di feedback che ricevevi da parte di persone super competenti e dei massimi esperti del settore, quindi se c’erano dei complimenti non potevi non essere felice”.

Per quanto riguarda il “Chi ci ricorda”, sei stato paragonato a Marchegiani, Perin e Gillet. C’è qualcuno di loro in cui ti rivedi di più?

“Su Marchegiani non mi esprimo perché non ho fatto in tempo a vederlo giocare. Gillet forse posso ricordarlo per altezza e reattività. In Perin mi rivedo molto proprio per lo stile di parata”.

Riprendiamo il racconto della tua carriera. Dopo la fantastica stagione con i Giovanissimi passi agli Allievi e giochi tutto il campionato da sotto età, giusto?

“Sì, il mister era Gualtiero Grandini e mi volle nella sua squadra nonostante fossi più piccolo. Per me fu come la prima vera sfida: la prima esperienza in cui cominciai a sentire un po’ di pressioni. Nel campionato Allievi, infatti, inizi ad affrontare squadre importanti e a guardare di più al risultato, per cui diciamo che cominci a fare sul serio. E affrontare questa avventura da sotto età non fu per niente scontato. Riuscii comunque a fare bene e mi divertii molto”. 

In quello che doveva essere il tuo secondo anno di Allievi, poi, vieni aggregato in pianta stabile alla Primavera e una volta vieni anche convocato in prima squadra.

“Esatto. Il mio secondo anno di Allievi doveva essere quello con i miei coetanei, ma mi allenai quasi sempre in Primavera, con la quale feci anche una decina di partite. Ho avuto anche la fortuna di essere convocato con “i grandi”, ma non esordii (anche perché in quel periodo la prima squadra non è che stesse attraversando proprio un bel momento). Conobbi però Simone Pasa, che attualmente gioca con me a Rimini. Se non sbaglio, il Padova era la sua prima o seconda esperienza con i professionisti, per cui era uno dei più giovani della rosa; avendo solo 3 anni di differenza era uno dei giocatori con cui stavo di più, perché condividevamo esperienze ed emozioni. Quando questa estate l’ho ritrovato qui abbiamo parlato di quel periodo e l’abbiamo ricordato con piacere”.

Prima hai parlato del primo anno di Allievi come uno step di crescita importante. L’altro momento chiave, probabilmente, è stato il trasferimento al Torino, sia perché passavi in una realtà storica e gloriosa come quella granata sia perché – per la prima volta – ti sei trovato a giocare e a vivere lontano da casa.

“Sì, quello è stato sicuramente il salto più importante. Avevo appena compiuto 17 anni, andai a vivere in un’altra città e, per la terza volta consecutiva, giocai da sotto età. Ebbi la fortuna e la bravura di riuscire a ritagliarmi il mio spazio, giocare titolare e, addirittura, vincere subito. Al primo anno, infatti, conquistammo il Campionato Primavera battendo in finale la Lazio ai rigori; andammo a oltranza e io ne parai uno”.

Dopo il biennio al Torino hai cominciato la tua carriera da professionista e nel corso degli anni hai cambiato tantissime maglie. Ce n’è una, però, che soprattutto all’inizio della tua carriera è stata una costante: quella dell’Italia, con la quale hai giocato in tutte le squadre fino all’Under 20. C’è un ricordo particolare al quale sei più legato?

“Mondiale a parte (che credo sia stata l’esperienza più bella di tutta la mia carriera), ti cito un episodio particolare. Andammo a Cadice per un’amichevole contro la Spagna e io in teoria non dovevo giocare. Non ricordo il motivo, ma il CT decise di schierarmi, io feci un’ottima prestazione e vincemmo la partita. Fu bellissimo. Anche l’Europeo Under 19 è un bel ricordo, nonostante il titolare fosse Meret. Arrivammo in finale e venimmo battuti dalla Francia di Mbappé, una squadra piena di giocatori che ora militano in Premier League, Bundesliga e altri campionati di quel livello. In generale, comunque, a prescindere dal tipo di manifestazione, ogni volta che vieni chiamato in Nazionale è un’emozione, perché vuol dire che sei tra i migliori dei tuoi coetanei e – dall’Under 20 in avanti – tra i migliori in generale”.

A proposito di Under 20, hai descritto il Mondiale come l’esperienza che non ti scorderai mai. E grazie a te non ce lo dimenticheremo neanche noi, perché hai fatto praticamente il nostro inviato. Te lo ricordi?

“Sì, mi ricordo. Mentre eravamo in ritiro in Corea io e Pessina abbiamo realizzato dei contenuti per La Giovane Italia. Quella manifestazione fu un’esperienza incredibile per tanti motivi: venimmo trattati come una Nazionale maggiore, l’organizzazione fu impeccabile, gli stadi erano sempre pienissimi, arrivammo terzi e il gruppo era fortissimo. C’erano Romagna, Pessina, Mandragora, Barella, Orsolini, Favilli… E poi appunto io e Pessina tenemmo una sorta di diario di bordo, realizzando una serie di video nei quali condividevamo emozioni e pensieri, mostravamo le nostre attività quotidiane, ci intervistavamo a vicenda in maniera simpatica… È stato molto carino”.

Sempre riguardo alla Nazionale, mi aggancio ad una frase che hai detto prima parlando della Francia Under 19: “era piena di calciatori che adesso giocano in Premier, Bundes e altri campionati del genere”. In Italia qual è il problema? Perché l’impressione è che nel momento in cui i nostri giovani devono fare il salto decisivo e arrivare in prima squadra ci sia una sorta di “tappo” …

“C’è senza dubbio un tappo. La soluzione però non è facile, anche perché se lo fosse l’avremmo già trovata. Io credo che sia soprattutto una questione di mentalità. Io mi ricordo che ogni volta che con l’Italia mi trovavo ad affrontare l’Inghilterra, la Francia, la Spagna o la Germania, guardavo la loro distinta e mi rendevo conto che, dall’Under 17-18 in poi, almeno 7-8 dei loro titolari giocavano sistematicamente già in prima squadra nella massima divisione dei rispettivi campionati nazionali. Da noi si contavano sulle dita di una mano quelli che, da sotto età, riuscivano a ritagliarsi un po’ di spazio in Primavera. Mi ricordo che gli unici all’epoca erano Barella e Bonazzoli. Penso che nel nostro paese ci sia una mentalità troppo “risultatista”, per cui conta più vincere che lanciare e far crescere i ragazzi. Adesso sembra che qualcosa si stia muovendo, ma siamo comunque distanti anni luce dagli standard degli altri paesi”.

Eppure a livello di qualità i ragazzi italiani non sembrano essere molto inferiori ai loro coetanei inglesi, francesi, tedeschi o spagnoli. I risultati delle nazionali giovanili parlano abbastanza chiaro.

“Sono d’accordo. Non è che ci manchino i talenti, è che non riusciamo a coltivarli. Per questo dico che secondo me dovremmo cambiare un po’ la nostra mentalità. Per non parlare poi delle strutture, perché anche quelle sono importanti. Se prendi ad esempio la terza serie inglese, trovi degli impianti che non sono nemmeno lontanamente paragonabili alla Serie C italiana. Poi ci sono tanti altri piccoli aspetti che, sommati l’uno all’altro, creano questo gap”.

Il problema secondo te, come dicono in tanti, può essere rappresentato anche dal Campionato Primavera che non è abbastanza competitivo? Secondo alcuni, infatti, i ragazzi più bravi dovrebbero passare direttamente dall’Under 17 agli allenamenti con la prima squadra per iniziare a masticare un calcio diverso.

“Innanzitutto, secondo me, una società dovrebbe cercare di individuare nella propria Primavera quei 2-3 ragazzi potenzialmente più forti della rosa e iniziare a fargli assaggiare il mondo della prima squadra. Il calcio giovanile, infatti, non ha niente a che vedere con quello dei “grandi”. E te lo dico per esperienza diretta. La pressione, la preparazione della partita, il rapporto con lo staff e con gli altri compagni – che hanno età, esperienze, palmares e obiettivi personali anche profondamente diversi l’uno dall’altro – sono completamente differenti rispetto ai campionati che fai con i tuoi coetanei. Per questo motivo, in un contesto di adulti e di prima squadra non è facile aggregare dei giovani. E qua torniamo all’inizio: bisogna saper individuare coloro che, attraverso un inserimento graduale, un domani potranno dimostrarsi al livello della prima squadra. Per “inserimento graduale”, però, non intendo solo allenamenti, ma anche partite. Una soluzione che potrebbe facilitare questo processo è la creazione delle formazioni Under 23, che – come sta facendo ora quella della Juventus – competano in Serie C. Si tratta infatti di un campionato di livello discreto, nel quale i giovani cominciano ad essere messi alla prova e a capire cosa significa una prima squadra. Il salto dalla Serie C alla Serie A rimane comunque notevole, per cui è importante che i ragazzi dell’Under 23 piano piano assaggino la prima squadra, però almeno così avrebbero un po’ di esperienza in più”.

Ed eviteremmo il rischio di perdere potenziali talenti. Rischio che tra l’altro il Padova ha corso anche con te quando stavi pensando di provare addirittura un altro sport. È vero?

“Più o meno sì. E anche lì devo ringraziare mio padre [ride]. Fin da piccolo sono sempre stato un appassionato di football americano e un anno (non mi ricordo precisamente quando, ma ero già da un po’ nelle giovanili del Padova) lessi un articolo che invitava i ragazzi della zona a provare a fare un allenamento con i Saints, la squadra di football di Padova. Io un po’ perché guardavo già tante partite di NFL e un po’ perché mi piaceva davvero tanto, presi in seria considerazione quella possibilità, ma appena lo dissi a mio padre lui per poco non cadde dalla sedia. Mi ricordo che mi rispose: «Se vuoi andare, ci vai a piedi. Io di certo non ti ci porto». A posteriori, anche in questo caso, posso dire che fortunatamente diedi ascolto a mio padre. Però da quel momento mi è rimasto il pallino e prima o poi voglio riuscire a fare almeno un allenamento di football. Due anni fa, quando giocavo a Cremona, ho avuto anche l’opportunità di conoscere un quarterback che abita lì e abbiamo legato subito perché il suo è uno sport e, ancora più nello specifico, un ruolo che mi affascina tantissimo. E ti dico di più: mi ero già organizzato per andare a vedere la partita dei Denver Broncos (la squadra per cui faccio il tifo) perché il 30 ottobre giocheranno a Londra. Solo che ho dovuto rinunciare perché con il Rimini abbiamo passato il turno di Coppa Italia e saremo impegnati l’1. Sono contento ovviamente eh; era solo per farti capire quanto sia tifoso. Il problema è che la stagione di NFL dura da settembre a dicembre, quindi io – in qualunque squadra giochi – sono sempre impegnato con il campionato. Non sono mai riuscito – e finché giocherò a calcio non riuscirò mai – ad andare a vedere una partita. Però su Dazn quando posso le guardo e se giocano i Broncos sto in piedi fino alle 3-4 di mattina (ovviamente se il giorno dopo non ho allenamento o partita)”. 

A meno che tu non vada a giocare in MLS per poi chiudere la carriera nel football…

“Mamma mia, sarebbe un sogno incredibile [ride]”.

Scherzi a parte, un sogno un po’ più realizzabile?

“A livello calcistico uno solo: fare bene a Rimini per tornare ad alti livelli. Negli ultimi due anni sono stato praticamente sempre fuorigioco a causa di due infortuni molto gravi, soprattutto per un portiere: mi sono rotto entrambe le spalle. Per la fretta di tornare, tra l’altro, ho avuto una ricaduta e mi sono dato la zappa sui piedi da solo. Potrei anche dirti che l’obiettivo a lungo termine è quello di riconquistarmi categorie superiori, come ad esempio la Serie B, però tutto passa da Rimini e dal presente che riuscirò a costruirmi. Per quanto riguarda la vita extra campo, voglio laurearmi l’anno prossimo. Attualmente, infatti, sono al secondo anno di Economia Aziendale e voglio completare il percorso in tempo”.

Sogni che sembrano estremamente raggiungibili. Quasi a portata di mano. O meglio, di lancio. Che poi sia quello di un portiere o di un quarterback, poco importa.