Eravamo LGI: Leonardo Morosini
È nato in provincia di Bergamo, ma il suo cuore è legato in modo indissolubile al Brescia. Ha appena compiuto 27 anni e davanti a sé ha ancora numerose stagioni, ma possiede già un’idea chiara di cosa farà quando smetterà di giocare. Ha imparato a suonare il pianoforte quando era un ragazzino, da completo autodidatta, ed è stato invitato a partecipare ad “X Factor”. Si è iscritto all’università nel 2019 e due settimane fa si è laureato, pienamente in linea con le tempistiche di una laurea triennale, ma col piccolo dettaglio che lui fa il calciatore a tempo pieno. Se tutto questo vi dovesse sembrare strano (e non faremmo fatica ad immaginarlo), non preoccupatevi: non è colpa vostra. La responsabilità – o meglio, il merito – è di Leonardo Morosini. Perché se i luoghi comuni sui calciatori spesso corrispondono a verità, lui è l’eccezione che conferma la regola.
Di solito cominciamo le interviste di questa rubrica partendo dall’inizio della storia. Stavolta, però, forse è più opportuno fare l’opposto, visto il traguardo che hai appena raggiunto. Non accade spesso che un giocatore professionista si laurei mentre è in attività e, soprattutto, che riesca a farlo in tempi brevi.
“È vero, non è comune. Negli ultimi anni comunque devo dire che, in particolare rispetto a quando ho iniziato a giocare, mi capita molto più frequentemente di incontrare ragazzi che hanno capito l’importanza di avere una carriera alternativa o comunque parallela a quella da calciatori. Io ho deciso di iscrivermi all’università appena finito il liceo. Ho fatto un anno di lingue e poi nel 2019 ho deciso di cambiare facoltà, passando a Scienze Motorie. Per me la laurea è una grande soddisfazione perché si tratta di un obiettivo che mi ero prefissato da un po’, per cui sono molto contento. So comunque che la triennale è solo un punto di inizio: ora si deve continuare e io continuerò”.
A proposito di passioni extra campo, è vero che suoni il piano e che sei andato anche a “X Factor”?
“Sì, suono il pianoforte. Non ho mai studiato nulla, ma da quando sono piccolo ce l’ho in casa e quindi ho iniziato presto ad approcciarmi a questo strumento. So tutti gli accordi a orecchio e riesco a suonarlo. È una dote mia, per la quale ovviamente devo ringraziare i miei genitori e la passione che mi hanno trasmesso. Per quanto riguarda “X Factor”, sono sempre stato un fan del programma fin da quando andava in onda su Rai 2. Poi Sky ha preso i diritti e nel primo anno in cui ha trasmesso anche la Serie B sono stato invitato ad “Extra Factor”. Giocando per il Brescia ed essendo appassionato di musica, infatti, decisero di intervistarmi. Suonai anche “Perfect” di Ed Sheeran”.
Sorge spontanea una domanda. Le passioni che continui a coltivare (la musica, lo studio…) e i traguardi che stai raggiungendo fuori dal terreno di gioco, influiscono in positivo sul tuo rapporto col calcio? Ti permettono di vivere il tuo lavoro con meno pressione e in modo meno totalizzante?
“Sicuramente sì. Ma è stato così durante tutto il mio percorso, anche prima di diventare professionista. Ho sempre avuto una passione incredibile per il calcio, mi sono sempre considerato un malato di pallone e il mio sogno è sempre stato quello di diventare un giocatore. Nonostante questo, non è mai stata un’ossessione, né per me né per la mia famiglia. Infatti, parallelamente alla mia carriera, ho cercato di continuare a fare tutto quello che facevo da ragazzo, scuola compresa. Poi, vuoi per fortuna, vuoi per bravura, sono riuscito a diventare un professionista, ma non è mai stato un chiodo fisso. E vedere il calcio da una prospettiva diversa, a volte con un po’ di distacco, ritenendolo una passione come le altre e non l’unica in assoluto, me l’ha fatto vivere meglio”.
Dato che ormai siamo entrati in argomento, parliamo della tua carriera. Hai iniziato a giocare nel Nese e poi sei passato alle giovanili dell’Inter. È stato questo il salto che ha dato origine a tutto.
“Ho iniziato a giocare da piccolissimo e a 6 anni ho avuto subito un problema fisico abbastanza serio: avendo i tendini corti, mi sono dovuto operare ad entrambi. Praticamente quando ho cominciato la scuola calcio camminavo sulle punte. La mia carriera è iniziata quindi con un po’ di sofferenza, che poi mi ha accompagnato quasi sempre anche negli anni a venire, considerando i tanti infortuni. Comunque, tornando a parlare di cose belle, vengo notato dall’Atalanta. Era tutto fatto, se non fosse che io sono un bergamasco atipico: invece di tifare per la Dea, sono sempre stato un malato di Inter. Il giorno della mia Comunione vado a fare un provino a Milano (quindi tu immagina la scena: mentre tutti gli altri ragazzini organizzano un rinfresco per festeggiare, i miei si fiondano in macchina per portarmi a giocare) e faccio subito gol. Da lì inizia il mio sogno, perché rimango 5 anni nella squadra per la quale ho sempre fatto il tifo”.
Poi però l’idillio finisce e passi all’Albinoleffe.
“Sì. All’Inter ero uno degli “storici” diciamo. Avevo cominciato addirittura con i Pulcini C. Ad un certo punto, però, come in tutte le giovanili dei grandi club, hanno cominciato ad arrivare ragazzi anche da fuori regione. Da quel momento lo spazio a mia disposizione si è ridotto e ho deciso di andare all’Albinoleffe, dove c’era già mio fratello. Sono stato lì un anno e mezzo, ma è stato un periodo un po’ da incubo e ho giocato pochissimo, sia per motivi fisici (sono infatti sempre stato un po’ piccolino e nei Giovanissimi capita di incontrare avversari già sviluppati, che quindi fanno la differenza) che per un rapporto mai sbocciato con il mio allenatore. Tornavo a casa e spesso piangevo. È stato un momento difficile della mia vita, non solo a livello calcistico. Poi sono passato al Brescia ed è cambiato tutto. L’esordio sembrava pianificato dal destino: la squadra avversaria era l’Albinoleffe. Vincemmo 3-1, io giocai titolare e feci tripletta. Lì iniziò un’altra parentesi bellissima”.
La storia della fisicità preferita alla tecnica già nel settore giovanile ci sembra di conoscerla…
“Guarda, sono ancora giovane, ma se mi dovessi chiedere «Dove ti vedi una volta appesi gli scarpini al chiodo?» ti risponderei sicuramente «Nel settore giovanile». Ti dico di più: forse addirittura con i bambini dei Primi Calci, perché reputo quello step di fondamentale importanza nella crescita. E quando si parla della crisi del calcio italiano e dei possibili modi per uscirne, io penso che la maggior parte delle risposte si trovi lì. Per me ad esempio è allucinante che le squadre professionistiche spendano dei soldi per comprare dei giocatori dall’estero e inserirli nei propri Allievi così da vincere lo Scudetto Under 16. Ma qual è l’importanza di vincere un campionato del genere? Nessuna. Lo scopo di un settore giovanile non è quello. L’obiettivo dovrebbe essere formare dei ragazzi affinché un domani possano fare i professionisti. Ma se prendi l’annata dei ’95 cresciuti nell’Inter e vai a vedere chi è diventato calciatore, non trovi nessuno di quelli con cui ho giocato io. Eppure, se potessi andare indietro nel tempo, scopriresti che di certi giovani se ne parlava come se fossero dei fenomeni solo perché a 14 anni erano alti già un metro e ottanta e di conseguenza facevano 8 gol a partita. L’allenatore poi se li coccolava perché grazie a loro poteva vantarsi con colleghi e amici di aver vinto un torneo. Il vero successo però non è quello: è vedere qualche ragazzo arrivare tra i professionisti. Purtroppo però nella maggior parte dei casi non funziona così. Io sono convinto che un altro Leonardo Morosini, se si fosse ritrovato al mio posto e non avesse avuto il carattere che ho sempre avuto io (che però è una cosa innata, perché quando sei un ragazzino non te lo sei ancora formato), probabilmente avrebbe smesso di giocare. Hai 14-15 anni, non giochi mai, cosa devi fare? Molli. Ora, io non credo di essere un giocatore da Nazionale, ma comunque ho fatto una carriera in B e ho giocato anche in A, per cui se avessi smesso ci sarebbe stato un giocatore italiano in meno. E pensa quanti casi ci potrebbero essere così”.
Fortunatamente, come hai detto, non sei tra questi casi. Oltre al tuo carattere, il merito va anche al Brescia, che ha deciso di puntare su di te e ti ha dato fiducia fin da subito. Titolare e capitano degli Allievi al primo anno, punto fermo della Primavera al secondo.
“Esatto. Il mio maestro è stato soprattutto Javorcic, che ora allena a Venezia e che divenne il mio mister al secondo anno di Primavera. Fu proprio nel finale di quella stagione che esordii in prima squadra. Al debutto guadagnai un rigore al primo pallone toccato. Fu incredibile. Poi collezionai altre 5 presenze e segnai anche un gol. Da lì iniziò tutto il mio percorso con il Brescia, che reputo ancora oggi la mia famiglia e il mio grande amore. Molti miei amici bergamaschi nel corso degli anni mi hanno punzecchiato – ovviamente in maniera goliardica – per questo mio legame con Brescia. Io nutro grandissimo rispetto per quello che ha fatto e che sta facendo l’Atalanta, sia in campo che a livello sociale, però non posso farci niente: il destino mi ha portato sulla sponda opposta”.
L’anno dell’esordio in Serie B coincide con quello in cui finisci sull’almanacco LGI. Che ricordi hai di quando uscì?
“Ritrovarmi a 19 anni su un libro fu una cosa fantastica. Mi ricordo poi che lo sfogliavo per andare a vedere chi ci fosse dei miei coetanei o per cercare ragazzi che erano stati miei compagni. Il “Chi ci ricorda”, in particolare, mi piaceva tantissimo e per me fu incredibile essere paragonato ad Alessandro Diamanti perché è uno dei pochi idoli calcistici che ho avuto. Tra l’altro, a proposito di Diamanti, ti racconto questo aneddoto (tanto per farti capire con un esempio pratico quanto io effettivamente sia sempre stato malato di calcio). Quando ero piccolo, io e mio padre decidemmo di fare l’abbonamento all’Albinoleffe, che all’epoca giocava in Serie B. Penso fossimo gli unici bergamaschi sulla terra ad averlo, perché alle partite non c’era quasi nessuno. Noi però eravamo appassionati di calcio e la B era l’unico campionato che potevo vedere dal vivo, perché tutte le altre categorie giocavano la domenica pomeriggio, in contemporanea con le mie partite. Un giorno vediamo esordire con la maglia dell’Albinoleffe questo ragazzo magrolino, con la maglia nei pantaloni e una pettinatura un po’ strana. Al primo tocco di palla, io e mio padre ci siamo guardati e ci siamo detti: «Questo è veramente forte». E a distanza di anni abbiamo avuto ragione. Quindi un po’ per questo episodio, un po’ per il fatto che lui poi giocò anche a Brescia (pur non lasciando un grande ricordo), un po’ per le sue doti tecniche, che lo rendevano un giocatore romantico, capace di inventare una giocata dal nulla, Diamanti l’ho sempre amato”.
Nel 2015/16 vieni anche nominato miglior giocatore del campionato. Prima di te, il premio è stato vinto da Berardi, El Shaarawy e dal trio Immobile-Insigne-Verratti. Ti aspettavi di riceverlo?
“Cioè in pratica tutti i vincitori hanno avuto una grande carriera. Solo io da quel momento ho iniziato la discesa [ride]. Comunque, per rispondere alla tua domanda, diciamo sì e no. Nel senso che da un lato avevo fatto una grande stagione, segnando addirittura 8 gol da trequartista e ritagliandomi un ruolo da protagonista in Serie B a soli 20 anni. Dall’altro, però, nonostante le mie prestazioni, in estate non mi cercò nessuno. Mi ricordo benissimo che altri giocatori, che non erano giovani come me e che avevano anche segnato meno, vennero acquistati da vari club di Serie A. Per me non si mosse nessuno. Ecco perché quel premio da un lato non arrivò come un fulmine a ciel sereno, però comunque un po’ mi sorprese. Fu gratificante perché sentii che qualcuno si era accorto di me e ancora oggi quando lo guardo mi rende felice”.
All’inizio della stagione successiva sei rimasto a Brescia, poi a gennaio ti acquistò il Genoa. Con i rossoblù hai esordito in Serie A, emozione che si è poi ripetuta proprio con “il tuo” Brescia due anni dopo. Che differenza c’è stata tra il primo assaggio della massima categoria e il bis?
“Non ti nascondo che la Serie A è il mio grande cruccio perché ci sono sempre arrivato nei momenti sbagliati. Nella mia prima esperienza mi sono ritrovato a vivere una delle annate più complicate della storia del Genoa. Ci siamo salvati alla penultima giornata ed è stata una sofferenza incredibile. Ho comunque esordito e sono rimasto 6 mesi. Durante il ritiro della nuova stagione mi sentivo bene, ma mi hanno mandato in prestito in B all’Avellino. Ho cominciato fortissimo e dopo 6 giornate mi sono rotto il crociato. Alla seconda esperienza in Serie A ci sono arrivato dopo aver vinto il campionato col Brescia. Una promozione storica, sia per il club – dato che erano passati 10 anni dall’ultima volta – che per me, visto che il mio amore per quella società mi ha sempre fatto vivere ogni vittoria al triplo dell’intensità. In B non ero un titolarissimo, ma raccolsi comunque 25 presenze. Arrivati in Serie A, gli equilibri e le gerarchie sono cambiate un po’ e nonostante mi sentissi bene trovai poco spazio. Insomma, la massima categoria per me rimane un rimpianto. Da un lato sento di non aver mai avuto una vera occasione, dall’altro non voglio cercare alibi e mi dico che probabilmente non ero pronto. Penso comunque che la fortuna sia una componente importante, che ha influenzato la mia carriera sia in positivo che in negativo. Quando ho esordito a Brescia, ad esempio, la società non aveva un grandissimo budget, per cui invece di comprare nuovi giocatori decisero di puntare sui giovani e mi buttarono nella mischia. Altrimenti solo un matto avrebbe lanciato uno come me – un ragazzino coi rasta – in un momento della stagione in cui ci stavamo giocando obiettivi importanti. Io colsi l’occasione e venni aiutato dal fatto che la squadra non andò male. Col Genoa, invece, debuttai in un k.o. per 3-0 a Udine. Non feci nemmeno una brutta partita, ma ovviamente un risultato del genere e una prestazione collettiva così negativa cancella tutto. Capisci? Può capitare sia di non avere proprio l’occasione che di averla nel momento sbagliato”.
La maglia del Brescia ha lo stesso colore di un’altra che hai avuto l’onore di vestire a livello giovanile: quella della Nazionale.
“Quando penso alla Nazionale o quando mi chiedono cosa rappresenta per me, io rispondo con una immagine: quella di mio nonno al mio debutto. Lui per me è stato importantissimo, soprattutto nei primissimi anni, quando si faceva Bergamo-Brescia tutti i giorni per portarmi a calcio o per venirmi a vedere. Ecco, prima del mio debutto con la maglia azzurra, vederlo commuoversi sugli spalti durante l’inno nazionale per me racchiude il senso di tutto. E non solo con la Nazionale. In tutte le piazze dove ho giocato, fin da quando ero nelle giovanili del Brescia, ho sempre dato il meglio di me quando sentivo la responsabilità di giocare per qualcosa di più grande: la storia di una società, la tradizione di una città, il calore di una tifoseria. Il calcio per me è sempre stato questo”.
Mi aggancio a questo racconto e ti faccio l’ultima domanda, proprio a metà tra calcio e famiglia. Quest’anno sei nello stesso campionato di tuo fratello. Il sogno è incontrarsi ai playoff?
“Eh, sarebbe fantastico. Io di lui ho sempre nutrito una stima profondissima, sia come persona che come giocatore, e l’ho sempre visto come un esempio. Non ho mai avuto invidia né gelosia nei suoi confronti. Anche quando è diventato professionista non ho mai pensato: “È arrivato lui, ora devo arrivare anch’io». Per me se sta bene non ha alcun senso che giochi in questa categoria e in passato l’ha dimostrato. Come me, però, ha pagato un po’ di sfortuna e tantissimi problemi fisici. Basta vedere la sua situazione attuale: il Sangiuliano sta andando alla grande, lui ha cominciato la stagione ad alti livelli, ma due settimane fa si è fatto il menisco. All’inizio di questa stagione ci siamo incrociati in amichevole. Era la prima volta che capitava, c’erano i miei a vedere ed è stato molto bello. Mi ha ricordato le sfide di quando eravamo piccoli. Lui alla fine è stato il migliore in campo, io ho segnato. Quindi direi tutti contenti. Ora di sogno ne rimane solo uno: riuscire a giocare insieme. Sappiamo che sarà difficile, ma mai dire mai…”.
Già, mai dire mai. Anche perché Leonardo Morosini ha ampiamente dimostrato che i cliché non gli appartengono. Lui è l’esaltazione dell’imprevedibile. È l’eccezione che conferma la regola.