Eravamo LGI: Patrizio Masini

Centrocampista del Novara in prestito dal Genoa, è stato inserito nell’almanacco sia come “recensito” che come “recensore”
28.01.2023 12:00 di Luca Pellegrini   vedi letture
© Instagram/masini_patrizio
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È un classe 2001 e pochi giorni fa ha festeggiato il suo compleanno. Nel nostro calcio, avere questa età significa dover fare ancora tanta gavetta. Perché in Italia c’è la concezione che un 22enne sia giovanissimo e abbia tutto da dimostrare. Patrizio Masini, centrocampista cresciuto nel Genoa e ancora di proprietà dei rossoblù, è la classica eccezione che conferma la regola e lo dimostra sia in campo che fuori. A settembre è passato in prestito al Novara e sta disputando la sua terza stagione nel calcio professionistico. Ancora (come sempre) da titolare. Il club piemontese è attualmente in zona playoff e lui ne è uno dei cardini. Così come è stato una delle colonne portanti della Sambenedettese, alla sua prima esperienza nel mondo dei “grandi”, e al Lecco, dove ha militato per un anno e mezzo. Fuori dal terreno di gioco sorprende per maturità e lucidità di analisi, come ha dimostrato l’anno scorso quando è tornato sulle pagine del nostro almanacco in una nuova veste: non più come giovane recensito, ma come recensore di giovani. Lui che sul nostro libro è stato presente tre volte.

Ciao Patrizio. Sono passati 5 anni dalla tua prima presenza sull’almanacco de La Giovane Italia e 10 anni dal tuo trasferimento al Genoa, dove hai fatto tutta la trafila del settore giovanile. In più, la scorsa stagione, proprio in questo periodo, ci hai aiutato nella stesura dell’ultima edizione del libro. Ben 3 ricorrenze che ci sembrava giusto celebrare con un’intervista. Partiamo proprio dall’inizio del tuo percorso: il periodo al Pianazze di La Spezia. Cosa ti ricordi?

“Del Pianazze ho solo ricordi positivi. È la squadra del mio quartiere e ho iniziato a giocare lì a soli 4 anni. Mi inserirono nella formazione dei più piccoli nonostante fossi un sotto età, perché in teoria avrei dovuto aspettare i 5 anni per iscrivermi. Stagione dopo stagione ho avuto diversi allenatori che mi hanno insegnato tantissimo e molti di loro li vedo ancora perché abitano a due passi da casa mia. Della società cosa posso dire? È una delle poche (se non l’unica) tra quelle che conosco che non fa pagare l’iscrizione: è tutto gratis. Inoltre, non avendo né la juniores né la prima squadra, sono tutti concentrati sull’attività di base e questo non può che fare bene ai bambini”. 

Hai accennato ad alcuni allenatori che sono stati importanti per la tua crescita. C’è qualcuno in particolare che ti senti di ringraziare?

“Assolutamente sì. Su tutti, Aldo Mannocci e Pino Regazzoni (che purtroppo adesso non c’è più)”.

A 11 anni passi al Genoa insieme al tuo compagno di squadra Laurens Serpe e cominci a fare avanti e indietro per allenamenti e partita. Come hai vissuto quel cambiamento e quanto è stato importante condividerlo con un amico?

“In quel momento c’erano tre società interessate a me: lo Spezia, che però si stava riorganizzando dopo il fallimento, la Fiorentina e il Genoa. Scelsi quest’ultima per una questione di legame col territorio – mia madre infatti è di Genova e i miei nonni abitavano lì – e per l’ottima reputazione del settore giovanile del club. Io e la mia famiglia sapevamo che il salto non sarebbe stato facile, ma eravamo convinti che il vivaio rossoblù fosse tra i migliori in Italia (come emerge ogni anno dal numero di ragazzi che cresce e fa esordire). L’organizzazione si rivelò ottima fin dall’inizio: per 3 volte a settimana, all’uscita da scuola, mi veniva a prendere un pullmino e mi portava a Genova. Per quanto riguarda la condivisione dell’esperienza con Serpe, beh, fu importantissima. Eravamo piccoli e il viaggio da La Spezia al campo di allenamento durava un’oretta. Avere un amico con cui parlare, passare il tempo e condividere esperienze è stato fondamentale. Legammo tantissimo”.

Nel corso del 2016/17 hai iniziato ad attirare l’attenzione de La Giovane Italia (tant’è che all’inizio della stagione successiva ti abbiamo inserito nell’almanacco). Hai raggiunto la semifinale Scudetto con il Genoa e sei stato convocato per la prima volta in Nazionale. È stata forse la stagione che ti ha fatto capire che con il pallone tra i piedi saresti potuto arrivare lontano? 

“Ero ancora un ragazzino, ma in effetti quell’anno è stato importante. Tuttora me lo ricordo perfettamente e credo sia stato uno dei migliori. Avevamo come mister Marco Oneto e riuscimmo a creare un gruppo davvero molto solido, che si è rivelato la nostra forza e che ci ha permesso di arrivare fino in fondo. In quella stagione, poi, venni chiamato spesso come sotto età dall’Under 17 di mister Luca Chiappino. I risultati raggiunti e le prestazioni offerte sia con la “mia” Under 16 che con i più grandi mi consentirono di ricevere la convocazione in Nazionale. La chiamata dell’Italia era un traguardo che ricercavo da tempo e fu una soddisfazione enorme. L’anno prima, quando diversi miei compagni erano stati chiamati per partecipare ai vari stage con la maglia azzurra, soffrii molto il fatto di non essere stato convocato”.

Quando i giovani parlano della Nazionale mettono spesso l’accento sull’emozione e sull’orgoglio del vestire la maglia azzurra, ma è raro che parlino apertamente del pre e del post convocazione. Mi spiego meglio: non capita spesso che un ragazzo dica schiettamente che si aspettava una chiamata o che è stato deluso dal non riceverla. A volte sembra quasi che l’Italia sia un sogno da godersi appieno quando se ne ha l’occasione, ma non un qualcosa cui si punta apertamente…

“Ah, non per me. Io non l’ho mai nascosto: volevo la Nazionale. E a posteriori non ho problemi ad ammettere che mi sarebbe piaciuto vivere di più le giovanili azzurre. Anche perché secondo me sono esperienze che ti fanno crescere molto come calciatore. Misurarti con i tuoi coetanei provenienti da tutta Italia, giocare amichevoli contro ragazzi che giocano in campionati stranieri… Sono opportunità che ti formano. La convocazione in Under 16 per me è stata un’emozione unica, veramente unica. Mi ricordo poi che insieme a me vennero chiamati altri miei compagni del Genoa che non erano alla loro prima esperienza; loro erano abbastanza tranquilli, ma io ero tesissimo. Era un obiettivo che ricercavo da un po’ e a cui tenevo troppo”.

Come abbiamo anticipato, nel 2017/18 vieni inserito per la prima volta nel nostro libro. Ti ricordi il giorno in cui te l’hanno comunicato?

“Mi ricordo che me lo dissero poco prima di Natale. Se non sbaglio venne anche organizzata una presentazione dell’almanacco al Porto Antico di Genova e venni invitato insieme a tutti i ragazzi del club che erano stati inseriti. In quell’occasione ricevetti il libro per la prima volta e da lì in avanti non me ne sono più perso uno: ho iniziato a collezionarli per conservare le mie pagine”.

In quella stagione arrivate ancora una volta vicini allo Scudetto: venite eliminati ai quarti dall’Atalanta (che poi raggiungerà la finale) nonostante la vittoria nella gara di andata. La delusione viene però bilanciata dalla seconda chiamata in Nazionale. È stato un anno agrodolce?

“No, no: è stato un anno fantastico. Se ho detto che il 2016/17 è stato il mio anno migliore nel settore giovanile del Genoa, questo è sicuramente al secondo posto. In quella stagione il mio mister fu Luca Chiappino, che avevo già iniziato a conoscere l’anno prima. È un mister a cui sono tuttora molto legato e che ho ritrovato poi al mio secondo anno di Primavera. Lo stimo tantissimo e sono contento di averlo avuto come allenatore in più occasioni; è una persona estremamente preparata, che sa lavorare benissimo coi giovani. In campionato non partimmo forte come al solito, ma lui riuscì a ricompattarci, tant’è che arrivammo terzi dietro a Juventus e Torino, che in quegli anni erano delle corazzate. I quarti effettivamente furono un peccato. Giocammo l’andata a Voltri, un campo che noi conoscevamo bene e sul quale tutti soffrivano. A fine primo tempo eravamo sopra 3-0. Io avevo fatto addirittura un gol e due assist. Era tutto perfetto. Nel secondo tempo l’Atalanta accorciò le distanze e si portò sul 3-2 con una doppietta di Traorè. Riuscimmo a vincere, ma al ritorno perdemmo 1-0 e venimmo eliminati per i gol in trasferta. Uscimmo comunque a testa alta, con la consapevolezza di essercela giocata fino all’ultimo e di essere stati battuti da una squadra forte”. 

Nel 2018/19 disputi da sotto età il campionato Primavera. Non sei uno dei titolari fissi e, soprattutto all’inizio, vieni usato prevalentemente come arma a gara in corso, ma mese dopo mese il tuo minutaggio aumenta e chiuderai la stagione con un buon numero di presenze. Che bilancio fai di quell’anno?

“Eh, all’inizio ho faticato un po’. Ritagliarsi spazio in Primavera da sotto età non è facile; se a questo aggiungi il fatto che nel mio ruolo c’erano due fuoriquota, che quindi avevano due anni più di me, capisci bene che imporsi subito fu impossibile. Col tempo, però, mi sono guadagnato il mio spazio, tant’è che nell’ultima parte di stagione ho giocato quasi sempre. Il Torneo di Viareggio, nel quale Carlo Sabatini – l’allenatore dell’Under 19 di quell’anno – ha dato spazio ai ragazzi che giocavano un po’ meno, mi ha aiutato tanto perché mi ha permesso di dimostrare che potevo giocarmela. Da quel momento il mister si è convinto che poteva fare affidamento su di me e ho cominciato a trovare molto più spazio anche in campionato. Se dovessi fare un bilancio, per rispondere alla tua domanda, direi che è stato un anno di crescita. Ovviamente rispetto alle stagioni precedenti giocai meno e quindi un po’ di dispiacere c’era, ma ci sta. Fa parte del percorso. Tra l’altro quello fu l’anno in cui mi trasferii a Genova a vivere (perché ad agosto era crollato il ponte Morandi ed era diventato impossibile fare avanti e indietro da La Spezia) e nei primi mesi accusai molto il trasferimento. Lasciare la famiglia, la città, la scuola e gli amici di sempre per andare a vivere in convitto non fu semplice e le conseguenze credo si vedessero anche in campo. Se sommi le difficoltà della nuova categoria con la lontananza da casa, hai un quadro completo. Piano piano, com’è normale che sia, mi abituai alla Primavera e mi ambientai a Genova, per cui le cose migliorarono”.

L’anno successivo hai affrontato la categoria con i tuoi pari età, giocando sempre da titolare. C’era un po’ di voglia di rivalsa oppure vedevi la stagione precedente come un normale step di crescita?

“No, assolutamente. Sapevo che in Primavera avrei giocato poco all’inizio, per cui ho sempre visto quella stagione come un naturale step di crescita. Al secondo anno mi sentivo più pronto e volevo dimostrare che anche in quella categoria potevo giocare da titolare come avevo sempre fatto fino a quel momento. Poi ero contentissimo del fatto che venne nominato allenatore Luca Chiappino, che avevo già avuto in Under 17 e con il quale – come ti spiegavo – avevo un rapporto splendido. Partimmo bene e creammo un bel gruppo. Peccato che i campionato vennero interrotti per Covid”.

Le prestazioni offerte nella prima parte di stagione bastano comunque per tornare sull’almanacco. Andando a rileggere la tua pagina di quell’anno mi ha colpito una frase di Carlo Taldo: «È un soldatino del centrocampo». Questa espressione non ha sempre una connotazione positiva. Come la interpreti? Ti ci rivedi?

“Innanzitutto ci tengo a dire che Taldo è una delle tante persone che fu importantissima nel mio percorso al Genoa. Soprattutto nel mio primo anno in Primavera, quando non trovavo molto spazio, mi ha sempre supportato, dicendomi che la società puntava molto su di me e che col tempo sarei diventato titolare. Già che ci sono, oltre a Taldo e a Chiappino che ho già nominato, ne approfitto per ringraziare mister Gabriele Gervasi e mister Andrea Bianchi (che all’epoca si occupava della Scuola Calcio), Michele Sbravati, che ha sempre creduto in me, e suo figlio Jacopo, che ho avuto spesso come secondo allenatore. Negli anni ho avuto la fortuna di incontrare persone con cui mi sono trovato benissimo. Detto questo, sono d’accordissimo con la definizione di “soldatino”. Non avendo infatti qualità tecniche eccelse, ho sempre dovuto compensare con altro: la corsa, l’intensità, l’applicazione, lo spirito di sacrificio, il rispetto delle indicazioni date dal mister…”.

Dai tuoi ringraziamenti emerge un legame molto forte con la società ed è questa una caratteristica che si riscontra spesso nei ragazzi cresciuti nel Genoa. Cioè, si ha come l’impressione che in tutti i giocatori e i membri dello staff ci sia un grande senso di appartenenza nei confronti del club e del territorio. Molto più che in altre realtà. È veramente così?

“Sì, assolutamente. Fin da quando entri nella Scuola Calcio tutti i mister e i dirigenti ti fanno capire che tipo di società sia quella che ti ha scelto e di cui difenderai i colori. Il Genoa è il club più antico d’Italia e un orgoglio per tutta la Liguria. Per capire il legame che unisce squadra, città e persone basta andare a Marassi, uno stadio fantastico dove c’è sempre un clima indescrivibile. È ovvio quindi che tutti i giocatori, dalla prima squadra ai Pulcini, sviluppino presto una sorta di identità particolare, che non ha eguali in tutta Italia”.   

Riprendiamo il filo della tua carriera. Nel 2020/21 debutti nel calcio professionistico: giochi la prima metà di stagione con la Sambenedettese e la seconda con il Lecco. Com’è stato l’impatto con il mondo dei grandi? A livello di gioco sembrerebbe ottimo, dato che in entrambe le esperienze hai fatto il titolare…

“A San Benedetto del Tronto mi sono trovato bene fin da subito, sia per quanto riguarda il campo che lo spogliatoio. Il gruppo era molto solido e mi ha aiutato ad inserirmi con facilità. Ho avuto come mister prima Paolo Montero e poi Mauro Zironelli, che ho ritrovato poi a Lecco e a cui devo davvero tanto. Fu lui a intuire che oltre alla mezzala, il ruolo dove avevo sempre giocato, potevo farne un altro: quello di esterno in un centrocampo a cinque, che tuttora a volte ricopro. Non avrei mai pensato di poter giocare lì, ma aveva ragione lui. A gennaio sono passato al Lecco insieme a Zironelli e sono rimasto per un anno e mezzo, durante il quale mi sono trovato veramente, veramente bene”.

Proprio di recente abbiamo intervistato un ragazzo che ha condiviso con te la stagione alla Sambenedettese e quella successiva al Lecco. Anche lui mi ha parlato molto bene di Zironelli e, in particolare, sono rimasto colpito dal fatto che entrambi abbiate detto la stessa cosa: «mi ha trovato un nuovo ruolo che non pensavo fosse adatto a me, ma devo ringraziarlo perché ci ha visto lungo e mi ha fatto crescere».

“So di chi stai parlando: Patrick Enrici. Infatti appena ho visto l’articolo gli ho scritto. Tra l’altro con lui ho un rapporto speciale perché sia a San Benedetto che a Lecco abbiamo condiviso la casa. Prima di quell’anno ci eravamo solo incrociati qualche volta da avversari in Primavera, ma entrammo subito in sintonia. È molto simile a me: un ragazzo serio, con la testa sulle spalle, che ha sempre fatto del lavoro quotidiano la sua forza. Per quanto riguarda Zironelli, è una persona eccezionale e un grande conoscitore di calcio; in particolare, ha una capacità unica di trasmettere le sue idee alla squadra e di far sì che tutti le assorbiscano in breve tempo. Non mi stupisce che anche Patrick te ne abbia parlato bene perché è difficile parlarne diversamente”.

La stagione alla Sambenedettese è stata la tua terza e ultima (da giocatore) sull’almanacco LGI. Nel corso delle varie edizioni c’è qualcosa che ti ha fatto particolarmente piacere leggere?

“Ricordo volentieri il paragone con Marco Parolo: un centrocampista che apprezzavo tanto e in cui mi rivedevo, per cui fui stra contento di essere paragonato a lui. Tra l’altro quelli erano i primi anni in cui facevo il Fantacalcio e lo prendevo sempre. Come dimenticare il suo poker a Pescara [ride]”.

Abbiamo specificato che il 2020/21 è stata la tua ultima apparizione sull’almanacco in veste di giocatore perché non si è trattato di un canto del cigno in senso assoluto. L’anno scorso, infatti, sei tornato sulle pagine del nostro libro in un nuovo ruolo: quello di “recensore”, realizzando il “Dicono di lui” di Mattia Tordini, tuo compagno al Lecco. Che sensazione è stata?

“È stato un effetto strano passare dall’altra parte [ride]. Però è stato bello. Mi ha fatto molto piacere che mi abbiate ricontattato e sono stato contento di poter parlare di Mattia. Come ho fatto prima con Patrick, anche di Tordini non posso che parlare bene. Tra l’altro secondo me, quando si descrive un giovane, avere il parere non solo di un allenatore, ma anche di un compagno che gioca con lui tutti i giorni può essere importante”.

E arriviamo infine al 2022/23. La stagione è iniziata per te in modo molto speciale. Prima di passare al Novara, infatti, sei stato aggregato alla prima squadra e hai ottenuto due convocazioni: la prima per Genoa-Benevento, prima gara dell’anno, e la seconda per Pisa-Genoa. Cos’ha significato per un ligure, cresciuto a La Spezia e trapiantato a Genova, calcare l’erba di Marassi?

“Non ci sono parole. Quando il Genoa gioca in casa, attorno alla squadra si crea una situazione che non si può spiegare. E vederla dal vivo è una cosa clamorosa. Tra l’altro io arrivavo già da due anni di professionismo, ma in C non esistono stadi in cui si crei un clima che sia anche lontanamente paragonabile. Quando tutta la curva fa i cori e le persone cantano tutte insieme non riesci neanche a parlare con il compagno che è seduto vicino a te. Dopo aver fatto tutto il settore giovanile lì, sognavo di vivere un’emozione del genere… L’ho vista come il raggiungimento dell’obiettivo per il quale ho sempre lavorato. Per l’intera partita sono rimasto a bocca aperta. E tieni conto che si trattava della prima partita post retrocessione, quindi sarebbe stato lecito aspettarsi non dico una contestazione, ma comunque una vicinanza diversa. Trovammo invece un entusiasmo incredibile. A Pisa la situazione non è stata molto diversa, perché da Genova sono scesi in migliaia ed è stato come giocare in casa. Spero che la squadra torni presto in Serie A perché una tifoseria così se lo merita”.

A settembre sei passato al Novara. Siete partiti forte, poi avete attraversato un periodo un po’ complicato e ora sembrerebbe che vi siate ritrovati. Mi racconti questi mesi?

“Il bilancio è senza dubbio positivo. Di comune accordo col Genoa ho deciso di fare un altro anno in Serie C e di alzare il tiro, andando in un club che avesse l'obiettivo di lottare per il titolo. L'impatto con la società, la squadra e la piazza è stato ottimo e le prime giornate di campionato hanno confermato che possiamo puntare in alto. Nelle settimane successive ci sono state un po' di situazioni che potevamo gestire meglio e che ci hanno penalizzato in classifica, ma ora vogliamo tornare ai nostri standard. Anche perché il girone è molto equilibrato e ogni settimana ci sono dei risultati a sorpresa che dimostrano come tutto sia ancora possibile. Sono convinto più che mai di aver fatto bene a scegliere Novara".

Nonostante i risultati ottenuti tra novembre e dicembre vi abbiano un po' allontanato dalla vetta mi sembra di capire che non vi nascondiate...

"Magari la classifica ha un po' smussato gli obiettivi iniziali, ma la squadra è forte e di certo non posso dire che lottiamo per la salvezza".

E i tuoi obiettivi quali sono?

"È normale che l'obiettivo sia salire di categoria. Farlo con la maglia del Genoa, con cui ho appena rinnovato, e tornare al Marassi sarebbe il massimo. Io cerco sempre di dare il 100% per la squadra dove gioco e per me stesso. Sono convinto che se uno è consapevole di aver fatto tutto quello che è nelle proprie possibilità non debba avere rimpianti. Vedremo cosa succederà da qui a fine stagione e che occasioni capiteranno. Fuori dal campo invece voglio terminare il percorso di studi. Attualmente sto frequentando la facoltà di Economia all'Università di Genova e spero di raggiungere presto la laurea".

Visto che ormai sei diventato ufficialmente talent scout de La Giovane Italia, al Novara c'è un giovane che ti ha colpito e che ci vuoi segnalare?

"Eh in realtà credo di essere io il più giovane della squadra, quindi non saprei che nomi farti. Se vuoi posso dirti Omar Khailoti e Andrei Marginean, che secondo me sono molto forti, ma sono anche loro dei 2001. Per quanto mi riguarda, un ragazzo di 21-22 anni ormai non è più un giovane: i veri giovani adesso sono i 2004".

Noi non possiamo che concordare, ma intanto i nomi segnalati da Patrizio ce li siamo annotati.