Carraro: "Avevo 17 anni e mi allenavo con Mutu e Montolivo. L'esordio al Franchi? Un'emozione unica"

È tornato a esultare di recente, con un gol che ha aperto la vittoria del Gubbio a Carpi. Per Federico Carraro, 33 anni, trequartista/centrocampista di classe e intelligenza tattica, quella rete non è stata solo una boccata d’ossigeno sportiva ma anche la conferma di un percorso personale ritrovato...
Partiamo da un passato recente, quello della tua stagione al Gubbio. E iniziamo proprio dall’ultima partita, una vittoria a Carpi, con un tuo gol che ha aperto le danze.
"Sì abbiamo fatto un gran risultato a Carpi. Era una squadra in salute, reduce da una bella gara contro l’Ascoli. Noi venivamo da un periodo complicato, senza vittorie da cinque giornate, quindi è stato un successo che ci ha dato morale e autostima. Personalmente sono felice di aver sbloccato la gara e dato una mano ai ragazzi".
La scelta di Gubbio: sei arrivato quest’anno in terra umbra. Cosa ti ha convinto?
"Mi avevano sempre parlato bene del Gubbio, una società seria che negli ultimi anni ha fatto buoni campionati arrivando spesso ai play-off. Ho scelto questa piazza anche per motivi familiari: mia moglie e i miei figli vivono stabilmente a Firenze e cercavo una società non troppo lontana, così da poterli raggiungere facilmente nei giorni liberi o nei weekend".
Torniamo agli inizi: come nasce la tua passione per il calcio? In famiglia avevi qualcuno che ti ha trasmesso questa passione?
"Come per tanti italiani, direi che è una passione naturale. In Italia il calcio è lo sport numero uno. Mio padre ha sempre amato il calcio, ha giocato fino a quarant’anni e poi ha allenato e fatto il direttore in categorie minori. È sempre stato un grande appassionato e sicuramente mi ha influenzato".
Quindi sei letteralmente cresciuto a pane e pallone.
"Esatto. Fin da piccolo lui mi faceva giocare, allenare, provare la tecnica. È stato fondamentale".
Nell'Almanacco del 2011 de La Giovane Italia eri tra i primissimi giocatori inseriti. Sei cresciuto nel vivaio del Padova, ma dove hai mosso i primi passi?
"Ho iniziato a 5 anni nella squadra del mio paese, Piove di Sacco, in provincia di Padova. Dopo qualche anno sono passato a una società affiliata alla Juventus e a 9 anni mi ha preso il Padova. I direttori erano Molon e Fincato, che mi vollero fortemente nel settore giovanile biancoscudato".
E poi è arrivata la chiamata della Fiorentina.
"Ho fatto 4-5 anni al Padova e poi, a 13-14 anni, diverse squadre iniziarono a interessarsi a me. Con la mia famiglia e il mio agente decidemmo di accettare la proposta della Fiorentina".
Era la Fiorentina di Corvino. Che salto fu per te?
"Un grande passo. A 14 anni non ti rendi ancora conto di tutto, ma vivere da solo in convitto, lontano dalla famiglia, ti forma tantissimo. Giocare per una società di Serie A, con un settore giovanile organizzato, è stata un’esperienza che mi ha fatto crescere molto, come giocatore e come persona".
Hai avuto difficoltà ad ambientarti?
"In realtà no. Mi sono trovato subito bene con il gruppo, la società e i tutor. I miei genitori venivano ogni weekend a trovarmi, quindi non ho sofferto troppo la lontananza".
Nel 2009 con gli Allievi Nazionali vinci lo Scudetto contro l’Inter, con 29 gol in 26 partite.
"Quella è stata una stagione davvero speciale: ci siamo divertiti tanto ed eravamo un gruppo straordinario, noi del ’92. Vincere uno Scudetto è stata un’emozione indescrivibile e, in più, riuscire a segnare 29 gol, compreso quello in finale contro l’Inter, ha reso quell’annata semplicemente indimenticabile".
All’epoca giocavi più avanti, da trequartista.
"Sì, facevo la seconda punta, l’esterno sinistro o il trequartista. Svariavo molto nel fronte offensivo. Solo con il tempo ho arretrato la mia posizione in campo".
Hai vestito anche la maglia azzurra, fino al Mondiale Under 17 in Nigeria. Che ricordi hai di quell’esperienza?
"È stata un’esperienza davvero incredibile. Ricevere la convocazione in Nazionale e vedersi tra i selezionati era una gioia enorme. Sono stato chiamato presto, a 14 anni, già con ragazzi di due anni più grandi e ho seguito tutte le trafile: un ricordo che porto ancora con grande piacere. L’inno era qualcosa di magico, un’emozione unica. In campo ho conosciuto giocatori forti di altre squadre, ed è stato davvero stimolante. Il Mondiale in Nigeria, probabilmente, è stato il capitolo più bello e significativo della mia esperienza in Nazionale. Andare in un continente dove non ero mai stato e confrontarsi con una realtà come quella della Nigeria, dove la povertà e la fatica della gente sono evidenti, ti apre la mente e ti fa crescere. Anche quell’esperienza mi ha fatto riflettere e maturare, così come ha fatto con tutti i miei compagni di squadra".
Poi la Primavera della Fiorentina, con finali e titoli importanti.
"Sì, la Primavera di quegli anni era davvero una vetrina importante. Vincemmo la Coppa Italia contro la Roma, con 15000 spettatori al Franchi e 25000 all’Olimpico. Erano anni bellissimi: c’era grande attenzione verso il nostro gruppo".
C’è una figura a cui ti senti particolarmente grato in quegli anni?
"Ce ne sarebbero tanti, ma dico Renato Buso. Mi ha allenato per quattro anni e mi ha insegnato molto. Con lui ho condiviso un percorso importante".
Buso di te disse che eri “espansivo ed estroverso, sempre al centro dell’attenzione”. Ti ritrovi in quella descrizione?
"Sì, ai tempi ero così. Mi piaceva essere protagonista e cercavo attenzioni. Oggi ho una testa completamente diversa".
Nel 2010 arriva l’esordio con la Prima Squadra: Coppa Italia e poi Serie A con Prandelli. Che emozioni hai provato?
"Quell’anno è stato il penultimo alla Fiorentina. Da gennaio ero praticamente sempre con la Prima Squadra, anche se in Primavera giocavo poco. Quando ho saputo che sarei andato in panchina per la Coppa Italia, l’emozione è stata enorme. Avevo 17 anni all’esordio al Franchi: l’ansia c’era, ma allo stesso tempo ero un po’ spavaldo, quindi non l’ho sentita come forse l’avrebbe sentita un altro ragazzo. Quei cinque mesi con la Prima Squadra sono stati davvero formativi: ho giocato due partite di Coppa Italia contro Chievo e Lazio, poi ho fatto il mio esordio in Serie A con il Bari. Inoltre, la Fiorentina era in Champions League, quindi sono andato in panchina a Liverpool e a Monaco contro il Bayern. Per un ragazzo di 17 anni sono stati mesi davvero intensi. All’epoca in panchina c’erano 18 giocatori e solo tre cambi, quindi trovare spazio non era affatto semplice".
In quello spogliatoio c’erano giocatori importanti. Chi ti ha aiutato di più?
"Tutti, davvero. C’erano molti italiani in squadra in quel periodo e tutti mi hanno dato una mano: Montolivo, Natali, Dainelli… ragazzi che mi davano sempre un consiglio. Tra quelli del mio ruolo, però, c’era Adrian Mutu, che mi stava sempre vicino e credeva in me. Era un ragazzo d’oro: si dice anche altro di lui, ma con me è sempre stato gentile e disponibile. Inoltre, avendo lo stesso ruolo, cercava di darmi consigli preziosi per crescere".
Poi lasci la Fiorentina e inizi la tua carriera tra i professionisti. È stato un passaggio difficile?
"Molto. Ero considerato un talento della Primavera, ma fuori da Firenze ho faticato mentalmente. Gestire aspettative e ansie non è stato facile. Mi sono formato tanto in quegli anni, ma ho anche pagato qualche errore di gioventù".
Modena, Pro Vercelli, Gavorrano: esperienze che ti hanno forgiato.
"Sì, a Modena e Pro Vercelli non è stato semplice, ho attraversato momenti duri e ho anche pensato di smettere. Poi al Gavorrano, con Buso in panchina e tanti amici ex viola, ho ritrovato entusiasmo e fiducia. Feci dieci gol e mi rilanciai".
Poi arrivano anni importanti, tra Imolese e Feralpi, fino alla vittoria dei play-off.
"Esatto. A Imola con Dionisi ho ritrovato il piacere di giocare: un allenatore di altissimo livello. Poi a Feralpi la vittoria del campionato è stato il punto più alto della mia carriera: ero maturo, leader e finalmente raccoglievo i frutti del lavoro fatto".
Nel nostro Almanacco eri stato paragonato a Diego. Ti ci rivedi?
"Sì, ai tempi mi ispiravo molto a lui: stesso ruolo, stesse caratteristiche. Mi piaceva tanto come giocatore. Anche perchè eravamo molto simili a quel tempo nel ruolo".
Oggi invece chi sono i tuoi riferimenti?
"Il mio idolo assoluto è Messi. Poi, per restare agli italiani, Totti e Pirlo sono i miei modelli: due maestri assoluti. Oggi mi piacciono Pedri e Modric, giocatori di grande qualità".
C’è stato anche un compagno che ti ha ispirato nel cambio di ruolo?
"Questa è una domanda a cui non ho mai dato una risposta, però sì. Un giocatore con cui ho giocato in Serie C, oggi è il mio procuratore: Pedersoli. Era un grande play, molto forte, e da lui ho imparato tanto".
Stai già pensando al futuro, a un post carriera da calciatore?
"Non so ancora con certezza quale strada intraprenderò, ci sono aspetti del calcio che mi piacciono molto e altri un po’ meno. Però, ad esempio, l’altro giorno sono andato a visitare il Viola Park: lì ho ancora diversi amici, tra cui il direttore del settore giovanile della Fiorentina. Scherzando, gli ho detto: “Tra quattro o cinque anni, quando smetto, mi prendi qui a fare lo scouting o l’allenatore del settore giovanile".
Quindi più orientato verso i giovani?
"Sì, credo di sì. Sto pensando di iniziare qualche corso, anche solo per prepararmi. Poi chissà: magari tra cinque anni mi dedicherò ad altro, ma intanto è giusto farsi trovare pronti".
Noi de La Giovane Italia cerchiamo anche telecronisti e osservatori. Ti potrebbe piacere?
"Perché no! Da piccolo facevo le telecronache giocando ai videogiochi, mi divertiva molto. Potrei anche pensarci, sarebbe un’esperienza simpatica".
Ultima domanda: obiettivi personali per questa stagione?
"Nessun numero preciso. Voglio solo dare continuità alle prestazioni e aiutare i ragazzi più giovani. L’obiettivo è arrivare ai play-off: abbiamo una squadra forte e possiamo farcela".
Un ringraziamento a Federico per questa splendida chiacchierata. E che dire... ti aspettiamo con noi sul campo!










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