Ex LGI nel mondo: Ignazio Cocchiere e la "dual career", tra sogni e passione

Cresciuto nel vivaio del Legnano, ha vinto il Campionato Primavera con l’Inter. Ora gioca in Belgio e lavora nella Commissione Europea.
05.03.2023 11:00 di Luca Pellegrini   vedi letture
La 'dual career' di Cocchiere
La 'dual career' di Cocchiere

«Hai capito Benjamín? Un uomo può cambiare tutto: la faccia, la casa, la famiglia, la ragazza, la religione. Persino Dio. Ma c’è una cosa che non può cambiare: la passione». È una delle battute più celebri de “Il segreto dei suoi occhi”, splendido film argentino diretto da Juan Josè Campanella, che nel 2010 ricevette il Premio Oscar come miglior pellicola straniera. Ed è la frase che Ignazio Cocchiere sceglie per riassumere la sua vita calcistica e lavorativa. A fine intervista mi manda addirittura il link di YouTube dove poter guardare la scena in versione originale, senza doppiaggio italiano. Ovviamente vado a vederla e non posso fare altro che dargli ragione: non esistono parole migliori per descrivere il suo percorso di vita e di sport, sul campo e fuori. Non solo perché la “passione” di cui si parla nel film riguarda proprio il mondo del calcio, ma soprattutto perché Ignazio Cocchiere, nella sua vita e nella sua carriera, ha dovuto costantemente reinventarsi, rimettersi in gioco, cambiare tutto. Tutto tranne la passione. Anzi, meglio al plurale: le passioni. Perché a quelle, Cocchiere, non ha mai voluto rinunciare.

Ciao Ignazio. Prima di tutto grazie mille per la disponibilità. Avevamo questa intervista in programma da un po’ e stavamo solo aspettando un pretesto che ci consentisse di cogliere la palla al balzo. Tra il gol decisivo che hai segnato nell’ultima gara di campionato e il cammino europeo di un club che ha segnato la tua carriera, l’Union St. Gilloise, abbiamo pensato che questo fosse il momento perfetto. Dato che la tua storia è tutto tranne che banale, cominciamo l’intervista con una domanda insolita. Devi sapere che all’interno del mondo LGI sei visto da tutti come “l’esempio del modo in cui si dovrebbe intendere il calcio”. Secondo te per quale motivo si è creata questa opinione e perché sei sempre stato uno dei primi nomi della lista tra i giocatori da intervistare?

“Che belle parole! E che bell’inizio di intervista. Mi piace questa domanda. Così non facciamo il solito discorso malinconico di un calciatore che prometteva bene e poi si è perso [ride]. Scherzi a parte, penso sia dovuto al fatto che la mia storia può essere carina da raccontare e magari può anche servire a qualcuno. Sai, spesso ci si fa un’idea sbagliata (o comunque non particolarmente bella) del calcio e dei calciatori: vengono dipinti in maniera un po’ negativa, si parla di loro come se guadagnassero tutti milioni, si contribuisce a creare l’immaginario per cui “calciatore = fama, soldi e donne”, si vanno a scovare e a raccontare le storie di coloro che magari sono spariti dai radar o che hanno avuto problemi a fine carriera… Insomma, questo è il panorama. Io credo invece che ci siano anche delle vicende positive, che magari hanno per protagonisti uomini che nella loro carriera non hanno vinto la Champions League, ma che grazie al calcio sono riusciti a fare qualcosa di buono. Io penso di rientrare in questo gruppo: non ho vinto trofei importanti, ma ho vissuto (e sto vivendo tuttora) una bella storia. Sono e sarò sempre grato al calcio e continuo a viverlo come una passione sfrenata, come quando ero ragazzo. Adesso ho 35 anni e un lavoro che mi gratifica, ma mi ostino a giocare ancora perché mi diverto tantissimo. E probabilmente sto vivendo uno dei periodi migliori della mia carriera: ho segnato 17 gol, siamo primi in classifica, sto bene fisicamente, sono ben voluto dai compagni e dai tifosi… Sono felice. Per cui, chi lo sa, magari la mia storia riesce a convincere i ragazzi che il calcio può dare tanto e insegnare tanto anche se non si arriva ai massimi livelli”.

Hai centrato perfettamente il tema e nell’ultima frase mi hai fornito un bell’assist. “Anche se non si arriva ai massimi livelli”. Quando abbiamo l’occasione di parlare con i ragazzi che stanno facendo la trafila del settore giovanile, spesso chiediamo loro: «Qual è il vostro piano B?». Proprio perché non è detto che riusciranno a vivere di calcio. Possiamo dire che per te, paradossalmente, il piano B è stato il calcio o è una forzatura? 

“È una provocazione che mi piace. Io ho sempre voluto portare avanti un piano A e un piano B. All’inizio – la Primavera all’Inter, la Serie C, l’esperienza in Svizzera – il piano A era il calcio e il piano B lo studio, ma erano comunque due cose che portavo avanti contemporaneamente. Il piano B c’è sempre stato, non me lo sono dovuto inventare dopo. Tant’è che quando ho iniziato la mia avventura nelle istituzioni europee e mi si sono aperte determinate possibilità lavorative, non ho dovuto fare altro che switchare i due piani, trasformando in piano A quello che fino a quel momento avevo portato avanti come alternativa e in piano B – un fantastico piano B – il calcio. Ho continuato a giocare in Belgio in Serie B, C e D, ma le categorie hanno sempre contato poco per me: l’importante è sempre stato continuare a divertirmi col pallone tra i piedi. Io mi diverto, mi tengo in forma e cerco di scrivere delle belle pagine di storia nelle realtà in cui gioco. Mi reputo comunque un ragazzo super fortunato, perché nonostante lo switch – che comunque non è stato traumatico e mi ha fatto crescere – ho realizzato il mio sogno: diventare un calciatore professionista. Poi non ho vinto la Coppa dei Campioni, è vero, ma sono riuscito a pagarmi gli studi e a togliermi diverse soddisfazioni”.

Hai deciso di iniziare l’università mentre giocavi nella Primavera dell’Inter e so che i tuoi genitori hanno svolto un ruolo determinante nella scelta di continuare gli studi. Se loro non avessero insistito avresti comunque fatto l’università o avresti rinunciato? E come mai la scelta è ricaduta su una facoltà molto lontana dal mondo dello sport?

“Eh, bella domanda. Io penso che i miei genitori siano stati straordinari durante tutta la mia carriera. Mi hanno sempre sostenuto, assecondando il mio desiderio di diventare un calciatore, ma mi hanno anche responsabilizzato, facendomi tenere i piedi per terra e trasmettendomi l'importanza di essere pronto a qualsiasi eventualità. In pratica il discorso che mi hanno sempre fatto è: "Fai bene a inseguire i tuoi sogni, però nel dubbio, fossimo in te...". E ci avevano visto giusto. Quando arrivai all'Inter, infatti, mi sembrava di vivere in un'altra dimensione: mi allenavo ad Appiano Gentile, stavo fianco a fianco con fenomeni come Adriano, Ibrahimovic, Figo, Stankovic, Vieira, Cambiasso, Zanetti... Insomma, perdere il contatto con la realtà è un attimo. Lì, oltre ai miei genitori, ha giocato un ruolo fondamentale il mio mister, Vincenzo Esposito, che ogni volta ci ripeteva: "Guardate ragazzi che quello che vedete qui non è il mondo del calcio in generale: è un'eccezione". Io mi prendo il merito di aver ascoltato mio padre, mia madre e l'allenatore. So che sembra una cosa scontata, ma quando sei un 19enne tendi a fare il contrario di quello che ti dicono. Io invece sono rimasto umile e ho iniziato l'università”.

Come mai hai scelto di iscriverti a Scienze Politiche e non hai optato per una facoltà più vicina al mondo sportivo?

“Penso che per un calciatore sia importante avere altri interessi. E non dico necessariamente l'università: può essere anche un hobby, una competenza che non riguarda l'ambito sportivo... Dedicarsi a qualcos'altro aiuta a staccare dal punto di vista mentale. Sai, i giocatori di alti livelli arrivano a giocare fino a 50-60 partite all'anno, hanno poco tempo di recupero e pochissimi giorni di vacanza. Coltivare un'altra passione può solo fare bene”.

È ormai chiaro a tutti che praticare uno sport di squadra possa rivelarsi molto utile anche nella propria carriera lavorativa. Fortunatamente, negli ultimi anni, si sta diffondendo la convinzione che vale anche l'opposto: studiando o lavorando si sviluppano attitudini e competenze che possono servire nello sport. Se dovessi analizzare il tuo percorso, cos'ha dato il calcio al tuo lavoro e cos'hanno dato il lavoro o l'università alla tua carriera calcistica?

“Guarda, la risposta alla prima domanda è fin troppo facile. Adesso infatti lavoro alla Commissione Europea e, in particolare, sono nella Direzione Generale che si occupa di Educazione, Cultura, Gioventù e Sport. Ho quotidianamente a che fare con le politiche sportive e, più nello specifico, uno dei temi che ho più a cuore – sia per mio interesse personale, sia perché è una delle task che mi hanno assegnato – è quello della dual career. Il motivo principale per cui mi hanno dato questo incarico è che, secondo loro, sono l’esempio vivente di come si possano portare avanti contemporaneamente la carriera sportiva e quella lavorativa/accademica. Direi che basterebbe questo per farti capire quanto il calcio mi sia stato di aiuto. Io sono il più grande sostenitore dell’idea che uno sportivo abbia delle skill che possono rivelarsi importantissime anche extra campo: la capacità di stare all’interno di un gruppo e di collaborare per raggiungere un fine comune, l’organizzazione, il rispetto dei ruoli, lo spirito di sacrificio, l’agonismo… Sono tutte doti che sviluppi giocando a calcio e che ti possono tornare utili nel lavoro. Purtroppo per dimostrare questa convinzione io sono dovuto andare contro tutto e tutti; mi dicevano che per dare il massimo nelle giovanili sarei stato costretto a trascurare la scuola, ma io ho portato avanti entrambe le cose; finito il liceo, hanno iniziato a dirmi che avrei dovuto scegliere tra il sogno di fare il calciatore professionista e l’ambizione di frequentare l’università, ma ancora una volta ho deciso di non sacrificare nessuna delle due strade; poi mi hanno detto che non avrei potuto fare il calciatore e, contemporaneamente, lavorare, ma ci sono riuscito. Ho dovuto lottare per far capire a tutti che fosse possibile, per cui adesso voglio che i giovani ne siano consapevoli. La dual career è fattibile e non riguarda solo il post carriera, ma il “durante”. Ormai, grazie alla tecnologia, si può fare tutto: corsi online, università telematica… Tutto. Basta esserne consapevoli. Ecco perché voglio che vengano raccontate storie come la mia. Non perché desidero che si parli di me, ma perché possono servire da stimolo;  E un po' mi arrabbio perché credo che tutti possano fare di più per veicolare questo messaggio: sportivi, federazioni e imprese. Per quanto riguarda la seconda domanda, cioè quanto e come il lavoro mi abbia aiutato nel calcio, anche in questo caso la risposta è semplice. Il rapporto che instauri con colleghi e capi, il rispetto dei compiti che ti vengono assegnati, la professionalità... Sono tutte qualità che non possono non essere utili anche nello sport. Non credo sia un caso che nelle mie due carriere io non abbia mai avuto alcun problema in spogliatoio o sul posto di lavoro. E non prendere questa affermazione come vanitosa, davvero; se c'è una cosa che non sopporto è vantarmi. Ci tengo però a dire che, per quanto ne so, non c'è mai stato un compagno che si è lamentato di giocare con me o un collega che si è lamentato di lavorare con me. E mi sono sempre comportato in modo spontaneo, non mi sono dovuto sforzare”.

L’impressione è che in Italia ci siano due problemi: da un lato i ragazzi che non vogliono coltivare calcio e studio, dall’altro il mondo calcistico e accademico che spesso non facilitano la vita ai ragazzi che ci provano. È veramente così? Come si può cambiare questa situazione?

“La seconda è una domanda da un milione di dollari [ride]. La soluzione al problema credo sia l’educazione: bisogna smetterla di far passare ai ragazzi il messaggio che, se vogliono fare i calciatori, devono usare tutte le proprie energie e il proprio impegno per quell’obiettivo, senza dedicarsi ad altro. Ai giovani si deve insegnare che è possibile portare avanti più passioni o interessi.  Non esiste che un adulto – un genitore, un insegnante, un allenatore, un dirigente – dica loro che non possono fare entrambe le cose. Per quanto riguarda la prima domanda, sono costretto a dire (a malincuore) che nessuno mi ha facilitato le cose. Questo un po' mi ha fatto arrabbiare e un po' mi ha dato un ulteriore stimolo per riuscire in entrambe le carriere. Però mi rendo conto che non sia facile. Mi ricordo che una volta Simon Barjie, un mio compagno alla Pro Patria [oggi preparatore atletico al Monza], mi disse: «Il calcio è uno sport per pochi». Sembra quasi un ossimoro, visto che è la disciplina più popolare del mondo e che può essere giocato veramente da chiunque, però è una frase dal significato profondo e un po’ provocatorio. E credo sia vera. Tolte le super star, chi è che può permettersi di vivere solo di calcio, sia durante la propria carriera che dopo aver appeso le scarpe al chiodo? Pochissimi. Basta prendere come esempio diverse società di Eccellenza: dal punto di vista dei contratti e dello stipendio trattano i giocatori come dilettanti, ma poi organizzano gli allenamenti nel pomeriggio. Una persona come fa? Magari mentre gioca riesce anche a sbarcare il lunario, ma appena smette non ha accumulato né i soldi né le competenze per reinventarsi. Non nego che queste caratteristiche del mondo calcistico italiano abbiano giocato un ruolo decisivo nello spingermi all’estero”.

A proposito della tua emigrazione: sono quasi dieci anni che vivi a Bruxelles e ormai ti trovi benissimo. All’inizio, però, so che non è stato tutto rose e fiori: c’è mai stato un momento in cui hai pensato di mollare tutto e tornare indietro?

“Guarda, non è che sia stato difficile l’arrivo in Belgio: è stato difficile il dover continuamente ripartire da zero. Divento campione d’Italia Primavera con l’Inter e mi trasferisco in Serie C al Pizzighettone, ma lì le cose non funzionano. Decido allora di rimettermi in gioco, mi avvicino a casa e passo alla Pro Patria, ma anche lì le cose non vanno bene. Mi chiamano in Svizzera per giocare in Serie B e non ci penso due volte: faccio le valigie e mi rimetto in discussione. Niente da fare. Torno in Italia e scendo in Serie D perché così posso concentrarmi sull’ultimo anno di università, ma dopo 6 mesi la società fallisce e devo trovarmi una nuova squadra. A fine stagione decido di prendermi 2 mesi sabbatici per scrivere la tesi e volo in Belgio, senza sapere cosa sarebbe stato del mio futuro sia in campo che fuori. Capisci? È stato un continuo ripartire da zero. So benissimo che si tratta di una frase ormai trita e ritrita, però davvero non conta quante volte cadi, ma quante volte riesci a rialzarti. Questo, tra l’altro, è l’ennesimo insegnamento che mi ha dato il calcio e mi è stato immensamente utile anche sul lavoro: la capacità di non abbattermi di fronte alle difficoltà e il coraggio di ripartire da zero se necessario”.

Arrivato in Belgio la tua storia assume quasi i contorni di un film…

“Sì, esatto. Vado a vedere un po’ per caso la partita dell’Union St. Gilloise, una squadra di Bruxelles che in quel momento militava in terza divisione, e sugli spalti incontro Maaroufi, un mio ex compagno nella Primavera dell’Inter che stava per firmare proprio con quel club. Mi parla un po’ della società, mi dice che sta cercando giocatori, mi convince a fare un provino e vengo preso. A quel punto chiamo i miei genitori – che tenevo aggiornati riguardo alla scrittura della tesi e che a gennaio mi aspettavano in Italia per la laurea – e dico loro che i piani erano cambiati: avevo trovato una squadra e quindi sarei rimasto in Belgio. Da lì inizia una storia ancora più incredibile: siamo coinvolti fino all’ultimo nella lotta per non retrocedere, giochiamo i playout e grazie ad un mio gol al 94’ ci salviamo; l’anno successivo manteniamo la categoria e io mi laureo capocannoniere; l’anno dopo ancora facciamo un campionato strepitoso e veniamo promossi in B. Io ormai ero l’idolo dei tifosi, ma ad un certo punto arriva un allenatore vecchio stile che non vedeva di buon occhio il fatto che io giocassi ad alti livelli e contemporaneamente lavorassi. Lascio quindi la squadra e vado prima al Dender e poi all’Aalst; gioco in Serie B e in Serie C, continuo a segnare a raffica e mi tolgo delle belle soddisfazioni. Calcisticamente si è trattato forse del periodo migliore della mia carriera. Ricevetti anche un’offerta da parte di un club professionistico per fare il giocatore a tempo pieno, ma la declinai per non lasciare il mio lavoro al Parlamento. Quella decisione fu una sorta di rivincita simbolica: ero io che sceglievo di dire di no al professionismo per mantenere la posizione lavorativa che avevo raggiunto. Il mio percorso calcistico, comunque, non credo ne abbia risentito: la scorsa stagione, per esempio, sono passato all’Overijse (il mio club attuale) e ho segnato 25 gol; quest’anno sono già a quota 17. Insomma, anche se probabilmente sono un po’ in là con gli anni, ho cominciato a farmi un nome nel calcio belga. E a livello lavorativo è andata (e sta andando) altrettanto bene: ho fatto uno stage al Parlamento Europeo, poi ho cominciato a lavorare come assistente parlamentare e ora ricopro la posizione di Policy Officer nella Sport Unit della Commissione Europea, per la quale mi occupo di politiche sportive”.

Mi hai raccontato il tuo percorso accademico e lavorativo, mentre quello sportivo l’abbiamo analizzato solo dall’Inter in poi. Ma come ti sei avvicinato al calcio? Come sono stati i primi anni?

“Da questo punto di vista credo di avere una storia simile a quella di migliaia di bambini in Italia. Il calcio è semplicemente lo sport più bello del mondo: si può giocare in strada, negli oratori, in cortile… E poi unisce come nient’altro: basta buttare un pallone in mezzo ad un gruppo di persone e scatta in automatico il divertimento. Ho cominciato a 4 o 5 anni, sono passato nelle giovanili del Legnano e poi mi ha chiamato l’Inter. Con i nerazzurri, oltre ad allenarmi fianco a fianco con i campioni che citavo prima, ho giocato con Bonucci, Balotelli, Biabiany e altri ragazzi fortissimi”.

Sei ancora in contatto con loro?

“Con Leo [Bonucci] e Mario [Balotelli] no, però sento ancora Paolo Tornaghi [l’anno scorso al Crotone, adesso svincolato], Francesco Bolzoni [attualmente nella 3ª divisione svizzera], Simone Fautario [oggi allenatore dell’Inter Under 15]… Poi sai, con i social è più facile rimanere in contatto. Ogni tanto ci scriviamo o ci commentiamo a vicenda storie e post. Dobbiamo organizzare assolutamente una reunion dei campioni d’Italia 2007. L’anno scorso ci siamo fatti sfuggire l’occasione di festeggiare il 15° anno dallo Scudetto, per cui dobbiamo rimediare al più presto. Sarebbe fantastico rivedersi e raccontare le proprie storie”.

Dopo aver vinto il Campionato Primavera cos’hai pensato? «La mia carriera è lanciata: adesso faccio il calciatore per davvero e mollo tutto il resto»? 

“No, assolutamente. Ho pensato solo: «Adesso ci provo». Abbandonare l’università è un pensiero che non mi ha sfiorato anche perché in quel momento non è che mi stessi ammazzando di studio. Tra allenamenti, partite, Torneo di Viareggio e campionato non è che riuscissi a dare molti esami. Però ci tengo a dire una cosa: non ho mai pensato «Ora mollo». Anzi. Mi sono sempre detto: «Piuttosto ci metto 4 anni invece che 3, ma riuscirò a finire l’università». La stagione successiva sono andato al Pizzighettone: vivevo in un paesino, giocavo in C2 e mi allenavo una volta al giorno dalle 14 alle 16. Avevo tantissimo tempo libero, non sapevo cosa fare e diedi una dozzina di esami. Questo è un altro messaggio che vorrei mandare ai giovani: nessuno vi obbliga a finire il percorso accademico in un determinato lasso di tempo. Non è detto che ci sia un momento entro il quale fare le cose e dopo il quale è troppo tardi. Se volete dare priorità ad altro, fatelo; ma non abbandonate gli studi. E se non volete studiare, trovate comunque qualcos’altro che vi piace e applicatevi. Non dev’essere per forza l’università. Io mi sono iscritto a Scienze Politiche e mi sono laureato relativamente in fretta perché quello che leggevo mi appassionava: la storia, la geografia, la geopolitica… Il segreto è anche questo: trovare la propria passione. Ovviamente, in un mondo perfetto, le aziende – in accordo con le società sportive – dovrebbero offrire agli atleti la possibilità di fare esperienza già durante la loro carriera. Così facendo, l’azienda potrebbe contare su una persona che ha skill utilissime (provenienti dalla sua carriera sportiva), mentre l’atleta inizierebbe ad entrare in contatto col mondo del lavoro e a costruirsi un bagaglio di competenze extra campo. A me sembra così evidente la situazione di win-win che non capisco il motivo per cui nessuno l’abbia ancora messa in piedi”.

C’è un aspetto del tuo lavoro che fa sì che tu non lo voglia abbandonare per nessuna ragione (nemmeno per dedicarti al calcio a tempo pieno) e un aspetto del calcio che non ti fa appendere gli scarpini al chiodo per dedicarti solo al lavoro?

“La risposta è la stessa: la passione. Come quella frase del film “Il segreto dei suoi occhi”. Giovedì sera sono andato agli allenamenti, ieri ho avuto il giorno di riposo, oggi non vedevo l’ora di fare la rifinitura e domani non aspetto altro che la partita. Settimana scorsa, tra l’altro, abbiamo battuto i primi in classifica grazie ad una mia doppietta, li abbiamo superati e ora abbiamo le ultime 8 gare per conservare il vantaggio e vincere il campionato. E per il lavoro è lo stesso. Ovviamente è una passione diversa, più professionale, ma sempre di passione si tratta. Sono finito in Belgio perché dopo la laurea in Scienze Politiche ho deciso di fare un Master in Politiche Europee e Internazionali. In quest’ottica, capisci bene che lavorare nel Parlamento Europeo e nella Commissione Europea sia la realizzazione di un sogno. Io ogni mattina mi sveglio e sono contento di andare al lavoro. Cosa c’è di più bello? Quanto posso essere fortunato a vivere delle mie due passioni?”.

Mi sembri un uomo felice e realizzato a tutti i livelli. Hai ancora qualche sogno da realizzare?

“Domanda bella, ma difficilissima. Il mio sogno più grande l’ho già realizzato: fare il calciatore professionista. In parallelo, poi, sono riuscito a realizzarmi anche a livello professionale. Ragionavo su questo argomento proprio l’altro giorno e un po’ mi sono preoccupato, perché trovare un sogno così ambizioso e così bello come quello che ho già realizzato è difficile… Diciamo che il mio obiettivo a breve termine è proprio questo: trovare qualcosa di importante da realizzare; un desiderio o un traguardo che mi stimoli e mi appassioni allo stesso modo di come faceva il calcio quando ero un ragazzino. Al momento non l’ho ancora trovato, per cui mi concentro su obiettivi più piccoli, sia legati allo sport che al lavoro. A livello calcistico, ad esempio, voglio vincere il campionato, continuare a giocare ancora un po’ e magari approdare in una categoria superiore. Di sicuro non ho intenzione di sedermi; accontentarmi non è un’opzione. Sono competitivo e senza stimoli mi annoio. Ho ancora tanta fame: devo solo trovare un bel traguardo verso cui indirizzarla”.

Prima hai citato il film di Campanella che ha vinto il Premio Oscar. Se dovessi abbinare una pellicola alla tua vita o alla tua carriera, quale sceglieresti? 

“Credo che la mia storia e il mio percorso siano talmente folli che a nessun regista sia mai venuta in mente una sceneggiatura che anche solo ci si avvicini [ride]. È troppo fuori dagli schemi”.

E chi lo sa, magari la storia di Ignazio Cocchiere non servirà solamente ai giovani come modello o come stimolo, ma anche ad un regista come fonte di ispirazione. Del resto, se la parola chiave della sua dual career “passione”, abbiamo già l’ingrediente fondamentale per un film biografico. Come disse Federico Fellini, infatti: «Non c’è fine. Non c’è inizio. C’è solo l’infinita passione per la vita».