Un sinistro a Giraudo: il mio ritiro in Argentina tra calcio e vita

Quando sono partito per l’Argentina sapevo che mi aspettava un ritiro intenso, ma non immaginavo che sarebbe stato anche un viaggio capace di arricchirmi profondamente sul piano umano.
Inizialmente, prima della partenza fissata per il 10 luglio, ero preoccupato. L’idea di trascorrere tre settimane in Argentina – prima di allora non ero mai stato lontano dall’Italia per tutto quel tempo – per di più d’inverno, non mi entusiasmava. Dopo il lungo viaggio da Roma a Buenos Aires, siamo stati subito trasferiti a Ezeiza, luogo che ospita il centro sportivo della nazionale argentina e che sarebbe stata la sede del nostro ritiro. Sin dalle primissime ore mi sono ricreduto. In primis perché la struttura si è rivelata estremamente efficiente, organizzata nei minimi dettagli per garantire a noi atleti le migliori condizioni di lavoro. Le palestre erano attrezzate con strumenti all’avanguardia, dagli spazi dedicati al potenziamento muscolare ai macchinari più
moderni per la riabilitazione e il recupero. Ogni area era concepita per rispondere a esigenze precise, così da permettere un allenamento completo e mirato.
A colpirmi, oltre alla qualità degli ambienti, è stata la professionalità del personale: magazzinieri, giardinieri e addetti alla struttura sempre disponibili, attenti e qualificati, capaci di creare un contesto di lavoro ideale. Sentirsi in un luogo dove tutto è pensato per esaltare la performance sportiva ha sicuramente giovato, ma ciò che personalmente ha rappresentato uno stimolo ulteriore a dare il massimo in ogni sessione di allenamento è stato il contesto stesso, il respirare l’aria del grande calcio, la consapevolezza di calcare lo stesso prato dove si sono allenati Messi e Maradona, i più grandi
calciatori della storia del gioco. È impossibile non notare, una volta entrati nel “predio” - l’edificio principale dell’impianto sportivo - il murales dedicato ai campioni del mondo del 2022 (foto in allegato), o le frasi motivazionali all’interno della palestra.
Nelle amichevoli che abbiamo giocato contro alcune selezioni locali, ciò che maggiormente è emerso come caratteristica peculiare del calcio argentino è la cosiddetta garra. I giocatori hanno una contagiosa rabbia agonistica, odiano perdere anche un singolo contrasto e non mollano mai fino al fischio finale. Ecco, credo che questo rappresenti molto non solo il calcio, ma anche il popolo argentino, un popolo umile ma pieno di energia. Il ritiro, infatti, non è stato contraddistinto unicamente dallo sport. Quando ci è stata concessa l’opportunità di uscire, abbiamo potuto respirare l’anima autentica dell’Argentina.
Passeggiando per le strade di Buenos Aires, ho avuto modo di comprendere che cosa rappresenta il calcio a quelle latitudini: accanto a quartieri in cui la povertà è tangibile, il “futbol” emerge come linguaggio universale, presente ovunque. Bambini che rincorrono un pallone per strada, campetti improvvisati tra i palazzi, murales dedicati ai grandi protagonisti del calcio argentino: segni concreti di come il calcio qui non sia soltanto uno sport, ma una vera e propria religione e per alcuni anche un’occasione di riscatto sociale.
Al termine del ritiro ci è poi stata regalata l’emozione di visitare due autentici templi del calcio mondiale: La Bombonera del Boca Juniors e il Monumental del River Plate. Due stadi che non sono soltanto impianti sportivi, ma monumenti che custodiscono storie di passione, rivalità e appartenenza. Quando da bambino non riuscivo a dormire, guardavo le partite di calcio sudamericano alla televisione con mio padre e trovarmi lì sul prato verde, immaginando il boato delle tifoserie, è stato un momento di grande impatto emotivo, che non dimenticherò mai. Il ritiro in Argentina è stato, dunque, molto più di una parentesi di preparazione atletica: è stato un’immersione in una cultura che vive di calcio, lo respira in ogni angolo e lo trasforma in energia collettiva.
Tornare a casa con questa consapevolezza significa aver ricevuto un dono che va oltre il risultato sportivo: aver toccato con mano quanto lo sport, in certe realtà, possa rappresentare vita, speranza e identità.